Trevor Bickford al bivio tra terrorismo e desiderio di un suicidio ad alto impatto
La nostra profiler ci analizza la personalità dell'uomo responsabile dell'assalto di Capodanno ad alcuni poliziotti di New York
Trevor Bickford alle ore 22.00 circa della notte di San Silvestro si è presentato ad un posto di controllo del Dipartimento di Polizia di New York a Times Square tra la cinquantaduesima strada e l'ottava strada ovest, dove gli agenti erano intenti al controllo dei bagagli alla ricerca di armi o oggetti sospetti. La zona aveva visto uno schieramento straordinario di tutte le forze di polizia disponibili, composte sia da agenti esperti, sia da neofiti. Il dispositivo di sicurezza era finalizzato alla costituzione di un cordone di sicurezza attorno a Times Square, affinché nessuno di newyorkesi giunti per festeggiare il Capodanno potesse portare al seguito armi, strumenti atti ad offendere o merci illegali.
Al checkpoint della Polizia il diciannovenne Bickford si è presentato vestito come un qualsiasi ragazzo americano, portando, secondo le prime testimonianze, come unici segni distintivi uno zaino e un kufi, il tipico copricapo di preghiera della tradizione di molti popoli medio orientali e africani. Nello zaino il diciannovenne portava un diario, un coltello e un machete; quest’ultimo è stato proprio utilizzato dal ragazzo per attaccare tre agenti della Polizia di New York. Dopo aver ferito due agenti, l’aggressore si è scagliato contro un terzo poliziotto, il quale, nel corso dello scontro in cui è rimasto ferito, è riuscito a colpire Bickford alla spalla con la sua pistola.
Il dottor Giulio Tatoni, laureato in Scienze Strategiche e studioso dei fenomeni connessi con il terrorismo di stampo jihadista, ci descrive l’arma utilizzata da Bickford:“il ragazzo ha utilizzato un particolare tipo di machete a lama ricurva, derivante dai coltelli nepalesi “kukri”, resi famosi dai leggendari soldati Gurkha, grazie ai quali il Kukri nepalese viene chiamato anche semplicemente “Coltello Gurkha”. Il Kukri, come tutti i tipi di machete, risulta generalmente essere un coltello particolarmente lungo (mediamente tra i 30 e i 40 cm), con una lama pesante la cui funzione è quella di rompere e tagliare al tempo stesso, sfruttando il peso della stessa lama, colpendo dall’alto verso il basso. Grazie a questi pesanti coltelli da lavoro, utilizzando una minima dose di forza, l’utilizzatore riesce a spaccare anche pezzi di legno di discreto spessore. Non sorprende dunque che i machete e i kukri abbiano anche trovato un largo uso nel campo militare, diventando coltelli doppiamente utili per il combattimento e per effettuare lavori sul campo di battaglia. A differenza dei normali machete a lama dritta, inoltre, il kukri presenta una lama ricurva e tagliente sul lato concavo, che rende il fendente maggiormente efficace anche grazie alla leggera forza che l’utilizzatore può esercitare sul polso. Nonostante dunque il kukri sia per il Nepal un simbolo legato alle tradizioni guerriere locali, la sua efficacia ha fatto sì che sempre più le coltellerie e le ditte fabbricatrici di attrezzi da lavoro ed equipaggiamenti militari introducessero il machete “modello Gurkha”, ormai diffusissimo in tutto il Mondo e facilmente reperibile senza particolari restrizioni.”
Abbiamo chiesto alla dottoressa Cristina Brasi, psicologa, criminologa e analista scientifica del linguaggio non verbale di stendere il profilo di Bickford. “All’età di 15 anni il ragazzo perde il padre per overdose e, successivamente, si convertirebbe all’Islam. La perdita di un genitore in età adolescenziale verrebbe considerato un fattore di rischio, in quanto trauma in grado di interferire con lo sviluppo. Durante la fase adolescenziale i ragazzi starebbero cercando di costruire la propria identità anche attraverso il superamento del conflitto che nasce dal desiderio di autonomia e l’ancora presente bisogno di dipendenza dalle figure genitoriali. Anche il processo di elaborazione del lutto risulterebbe essere particolarmente complesso, un adolescente deve infatti riuscire a superare l’ambivalenza di odio e amore nei confronti del caro che è venuto a mancare, gestendo al contempo rabbia, delusione e senso di colpa. Nel caso specifico si tratterebbe inoltre della perdita della figura paterna, presumibilmente presa a modello dal ragazzo stesso. Tale perdita sarebbe in grado di generare un blocco evolutivo, soffocare le emozioni e influenzare in modo negativo il modo in cui si percepisce. Incontrando difficoltà nel fronteggiare il dolore e lo stress causati dalla morte del padre, sarebbero subentrati elementi di ordine depressivo che possono averlo condotto a pensieri suicidari.”
Secondo il dott. Tatoni “attraverso l’arma descritta, Bickford avrebbe inferto un fendente sul primo agente, colpendolo presumibilmente dall’alto verso il basso per massimizzare l’efficacia dello strumento utilizzato, per poi colpire il secondo agente sulla testa (secondo alcune fonti, utilizzando il manico del kukri); avrebbe infine ferito il terzo agente, che ha tuttavia avuto il tempo di estrarre la pistola e colpire alla spalla l’aggressore. La ferita alla spalla sarebbe bastata all’aspirante jihadista per essere reso inoffensivo e disarmato. Secondo quanto finora emerso, Trevor Bickford nel suo diario avrebbe espresso il desiderio di unirsi ai Talebani in Afghanistan e di diventare un caduto della causa jihadista, un “martire”. La sua azione, tuttavia, denoterebbe una distratta postura addirittura anche verso gli stessi ideali per i quali Bickford avrebbe voluto morire.
L’aggressione a poliziotti newyorkesi in un luogo e in un periodo di scarso valore simbolico per il jihadismo, anche qualora avesse causato vittime (comunque poche, dato che i primi bersagli scelti sarebbero stati proprio gli unici armati), sarebbe stato difficilmente utilizzabile dalla propaganda jihadista come una vittoria anche soltanto simbolica, in quanto solitamente le organizzazioni terroristiche internazionali cercherebbero la spettacolarizzazione dell’attacco attraverso il gran numero di vittime o la capacità di colpire luoghi simbolo della Nazione nemica. L’intento di Bickford sembrerebbe quindi più un tentativo di trovare la morte nel modo che allo stesso aggressore sarebbe parsa il più eccezionale e violenta possibile che un vero attacco terroristico.”