Un limite

Da provinciale, sto cominciando a provare astio per coloro che denigrano e insolentiscono la provincia e le Province. Mi spiace, ma dovremo pur difenderci. Il clima, lasciatemi dire, sta diventando intollerabile. A dire il vero, la moda viene da lontano; …Leggi tutto

Da provinciale, sto cominciando a provare astio per coloro che denigrano e insolentiscono la provincia e le Province. Mi spiace, ma dovremo pur difenderci.

Il clima, lasciatemi dire, sta diventando intollerabile. A dire il vero, la moda viene da lontano; da quando cioè hanno cominciato a utilizzare “provinciale” per dire frusto, passato, demodé, e insieme conformista e bigotto (non avvedendosi peraltro della contraddizione interna). Ma per fortuna l’abuso dell’aggettivo è acqua passata, e rimanda semmai a una supposta grandeur molto anni ’80, a chi voleva modernizzare e abbellire il Paese a forza di debito pubblico regalato alle successive generazioni e di stadi già da demolire.

Oggi invece va per la maggiore l’abolizione delle province: idea squisitamente reazionaria, dato che va a tagliare in modo assolutamente lineare dei servizi forniti ai cittadini e insieme elimina un livello di votazioni e quindi di democrazia, essa è anche boriosamente antistorica, visto che colpisce il tessuto sociale e amministrativo del nostro paese nel punto in cui è più antico, forte e sentito; e soprattutto basa la propria efficacia propagandistica sull’inganno cosciente di chiamare costi della politica (o della casta) quelli che sono in realtà costi della democrazia.

Tuttavia, come detto, il clima è questo; e non c’è chi abbia la forza e la lungimiranza di mostrare e motivare un’opinione contraria e di dire semplicemente che le Province devono restare: perché non c’è alcuna ragione logica per abolirle, e perché questo non è proprio il momento per abbandonare il territorio di un paese sempre più fragile e sconnesso, simile a un vecchio pavimento troppo calpestato. Anzi, se lo Stato è l’accordo di una comunità – e non invece un Moloch o un malinteso mostriciattolo etico, ciò che io vorrei escludere – adesso è semmai il momento di rafforzare la propria presenza, anche simbolica, e di affondare le radici nel terreno che frana.

Ieri (quando fra l’altro Pasolini avrebbe compiuto novantun anni: auguri) mi è capitato di fare un lungo viaggio in auto, per lo più su strade provinciali danneggiate da due inverni rigidi e dalla paralisi amministrativa, attraverso un certo numero di comuni, nessuno dei quali credo superi i cinquemila abitanti. E mentre guidavo e osservavo le fornaci, i trattori, le querce e i campanili pensavo che l’Italia è questa, e che il nostro paese muore o rinasce in provincia, per parafrasare Langer. E mi pareva che ogni cosa (la storia, il buon senso, le querce) mi comunicasse in silenzio la propria approvazione.

O forse è solo colpa di un cielo uggioso e di un viaggio causato da qualche piccola preoccupazione, e queste note non hanno altra origine.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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