Sentieri e rotte. Fenomenologia del viaggio in natura
(Giuseppe Mendicino)
Italia

Sentieri e rotte. Fenomenologia del viaggio in natura

Tutti coloro che amano la montagna o il mare nutrono il sogno nascosto di imbattersi, prima e poi, nei magici abitatori che popolerebbero i luoghi più reconditi di boschi e foreste o quelli più profondi degli abissi marini. E’ una certezza che nasce leggendo le storie, i racconti o le semplici impressioni di chi, di “montagna” o di “mare”, ha scritto per passione o per professione, andando alla continua ricerca del sentiero più sconosciuto come della rotta più esaltante, per conoscere un altro tipo di via: quella interiore e spirituale, intima e privata, che possiamo conoscere appieno grazie a «quel viaggio di scoperta eternamente in fieri, quella lunga avventura per valli, crinali, gole, foreste, pareti di roccia, grotte, (che) non hanno soltanto una dimensione geografica, ma anche un orizzonte interiore» (Francesco Bevilacqua 1999).

La dimensione del “camminare” acquista così il significato di una continua ricerca non solo fisica, ma soprattutto mentale, spirituale, un continuo concentrarsi alla ricerca di spazi dove far scorrere lo sguardo unitamente alla fantasia e all'immaginazione, gustando panorami affascinanti nei quali rispecchiarsi, ricercando sè stessi oltre che il fascino della natura, riscoprendo il vero significato della vita oltre ad ammirare un tramonto, un’alba, una cima candidamente innevata, un tratto di mare dall’azzurro incontaminato. Questo è il “modus explorandi” che ha contagiato intere generazioni di viaggiatori, attirati dalla bellezza dei luoghi prescelti come tappa di un itinerario, in un continuo rincorrersi di natura, tradizioni, storia. Ed è proprio in questi angoli che ognuno di noi dovrebbe ricercare Elfi e Sirene, e considerarli non soltanto personaggi fantastici, ma guide reali nel nostro stesso “viaggio di ricerca”.

Basta leggere un elzeviro di Dino Buzzati pubblicato il 14 ottobre del 1948 sulle pagine del Corriere della Sera, in cui lo scrittore e giornalista bellunese dava il proprio personale suggerimento a tutti coloro che si avvicinavano alla conquista di una vetta: in “Hanno obbedito alla montagna” -questo il titolo- il celebre giornalista era impegnato a sostenere «innanzitutto la necessità di uscire da una visione ottocentesca, da anima bella, per cercare una soluzione efficace e alta della passione per la montagna (...) Per Buzzati la molla psicologica che porta 1’uomo a salire le vette o scendere i pendii è la forte, naturale attrazione per 1’immobilità e la ripidezza» (Luigi Borgo, 1997). Immobilità e ripidezza, dunque: due concetti ben cari a tutti gli escursionisti, i “trekker” e naturalisti in genere, alla continua ricerca del punto più alto e ripido da cui osservare la vastità circostante in attesa della discesa a valle, che non è solo luogo fisico di distacco dalla sommità appena raggiunta, ma momento di transizione in attesa della prossima ascesa verso un’altra vetta.

“L'immobilità” riesce a far esplodere nell’uomo un senso di forte tranquillità che Buzzati mirabilmente spiega quando si chiede «a che si affanna l’uomo, giorno e notte, a quale scopo lavora, accumula soldi, persegue fama e potenza, se non per poter un giorno essere completamente libero da ogni soggezione e, quindi, riposare? (...) Sì, l’uomo tende inconsciamente a conquistare la quiete. Proprio per ciò la vista delle montagne, modello perfetto dello stato di quiete a cui egli tende, procura un senso di appagamento. Non solo, sorge nell’uomo il confuso desiderio di aderire, di adeguarsi, di identificarsi in un certo modo a tanta immobilità, di prenderne infine possesso». (Dino Buzzati, 1948)

Ma è soprattutto nel concetto della “ripidezza” che il viaggiatore tra i monti riesce forse meglio a cogliere un sentimento di fascino, proprio perchè amplifica la lontananza e quel “senso di mistero” che la montagna riesce per incanto a regalare grazie all’immensa «carica di solitudine: c’è un gioco molto più fantastico di luci e di suoni. E c’è l’incanto della intimità, lo stesso che si assapora in parete, su per i grandi camini e diedri, (...) gli aerei baldacchini assumono un’espressione umana. Si direbbe che qualcuno ci aspetti, che ci spii tra le rocce. Ogni angolo, cavità, anfratto, sembra invitarci a restare, promettendo misteriose beatitudini. Nei canaloni, non sulle pareti o sulle creste, vivono gli elfi, gli gnomi, gli antichi spiriti della montagna» (Dino Buzzati, 1948). Il lettore peninsulare, a questo punto, ricorderà che a parlare era nientemeno che Buzzati, lo scrittore-alpinista vero cantore delle sue Dolomiti, che alla passione per i monti aveva dedicato capolavori come “Barnabo delle Montagne”! E in sua compagnia non possiamo non citare Thomas Mann, Ernest Hemingway, Massimo Mila, Mario Soldati, Goffredo Parise, Mario Rigoni Stern, Giorgio Bocca, Rolly Marchi, tutti unici nell’immortalare le stupende vette alpine, tra poesia ed escursionismo. Sarà vero: ma anche le elevazioni appenniniche, tra poesia ed escursionismo, possono regalare le stesse sensazioni, con la possibilità di incontrare «i monachicchi, esseri piccolissimi, allegri, aerei (che) corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetto; (…) ma sono innocenti (…), il loro carattere è una saltellante e gioiosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso, più grande di loro; e guai se lo perdono: tutta la loro allegria sparisce (…)» (Carlo Levi 1945). La singolare ambientazione la colse proprio il celebre pittore torinese nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, affrontando il tema dell’uomo che sfrutta la propria forza creatrice, la fantasia e l’immaginazione letteraria come strumento per avventurarsi in un viaggio tipicamente onirico.

Da questo versante si coglie tutto il riferimento al Romanticismo, la grande corrente culturale dell’Ottocento europeo che eleverà la natura al ruolo di “vita che crea eternamente, artificio per avere più vita” (Goethe), «grande organismo del tutto affine all’organismo umano, mobile gioco di forze che genera tutti i fenomeni e quindi anche l’uomo» (Giovanni Reale, Dario Antiseri, 1983). Ecco, allora, il significato più profondo dell’avventura in natura: ognuno di noi, “alpino” o “appenninico”, saprà scegliere al meglio il sentiero per il proprio viaggio di scoperta, perchè ciò che conta non è la collocazione geografica, ma il particolare “sentire” e “ricercare” (Sehnsucht) che inevitabilmente ci regala le stesse sensazioni all’ombra delle impareggiabili creste dolomitiche cantate dal bellunese Buzzati come nei misteriosi boschi lucani esaltati dal torinese Levi. Così come non occorre navigare lungo mari da sogno per imbattersi nelle mitiche “sirene”: queste ultime sicuramente avranno attraversato lo Stretto di Messina, tra Jonio e Tirreno più volte di quanto si possa immaginare!

E allora come non proteggere i nostri monti, come non difendere i nostri mari, perchè in essi sono racchiusi, passato, presente e futuro, in un rincorrersi continuo di ricordi ed aspirazioni, nella consapevolezza che ognuno di noi, lungo quegli stessi sentieri e quelle stesse rotte, sarà in grado di percepire sempre «una comunione di spiriti, un inspiegabile, intimo e segreto travaso d’anime». (Francesco Bevilacqua 1999). Buon viaggio in natura…

I più letti

avatar-icon

Egidio Lorito