In viaggio con Jacqueline, il cinema è poesia – La recensione
Un agricoltore algerino attraversa a piedi la Francia con la sua mucca: in un road movie che diventa favola divertente e delicata sull’accoglienza
L’uomo che sussurrava alle mucche. Anzi, alla sua soltanto, la Jacqueline dai grandi amorevoli occhi liquidi che dà il nome al Viaggio del titolo, appunto In viaggio con Jacqueline, in sala dal 23 marzo, firmato da Mohamed Hamidi. L’uomo, invece, si chiama Fatah (l’attore Fatsah Bouyahmed, stravagante e sublime), un agricoltore algerino che, dopo aver ricevuto il sospirato invito a partecipare con Jacqueline al Salone dell’Agricoltura di Parigi, parte dal suo primitivo villaggio per traghettarsi a Marsiglia e da lì raggiungere, a piedi, la capitale di Francia.
La conquista della terra
Quasi iniziatico, il viaggio e di scoperta. Alla Alice. Fatah ha salutato la sua campagna brulla e adesso incomincia ad attraversarne un’altra, di campagna, verde di erba e colorata di fiori, straniera ma in qualche modo ugualmente familiare. In un percorso che sembra penitenziale e sa quasi di ringraziamento ma in verità esprime pragmaticamente l’anima contadina e il concetto di conquista della terra, passo dopo passo. Pioggia e sole, freddo e calura l’accompagnano. S’è lasciato dietro la sua gente, una moglie con la quale – pure amandola – parla meno che con la sua mucca, l’attesa durata anni di quella chiamata dalla Francia che ora è là, a portata di mano, anzi di cammino.
“Star” di un caso nazionale
Il viaggio con Jacqueline è un’impresa. Piena di incontri e di rifugi. Fatah incrocia la gente di un circo, s’imbatte in una manifestazione sindacale che finisce in tafferuglio e lo porta dritto in gattabuia facendogli perdere di vista per qualche terribile ora l’adorata Jacqueline. S’imbatte in un nobile spiantato, il conte Philippe (Lambert Wilson), col quale intreccia un rapporto di straordinaria complicità ed intensità affettiva, ritrova quasi per caso il cognato Hassan (il comico magrebino Jamel Debbouze, una celebrità in Francia), viaggia in una cornice di simpatia e di solidarietà che prima assume il sapore croccante dei buoni sentimenti e dell’umana fratellanza, dopo si trasforma in qualcosa d’imprevisto e d’incredibile: quando il suo andare, che pare raccogliere e trascinare dietro si sé tutto ciò che incontra lungo il percorso, diventa un caso nazionale, accompagnato da televisione, giornali fotografi. E l’arrivo a Parigi non è più quello d’un contadino d’Algeria ma di una autentica, inconsapevole, incredula e felicissima “star”.
Un’erranza paradossale
Poco importa se Jacqueline verrà incoronata o meno reginetta delle mangiatoie come d’uso al Salone dell’Agricoltura parigino. Importa molto, piuttosto, che questa favola agreste e moderna sia diretta da Hamidi (45enne franco-algerino già acclamato a Cannes nel 2013 con Né quelque part) con humour dolcemente elettrico, tempestata di episodi e d’incontri, modellata sull’accoglienza e la tolleranza. Film delizioso, fatto di poesia pura e giuliva. Che cita il Fernandel de La vacca e il prigioniero di Henri Verneuil (1959) e racconta di un’erranza paradossale, ardente e un po’ folle ripassando da cima a fondo – e naturalmente senza darlo a vedere - l’intera storia della cultura contadina.
Nella sfera affettiva universale
In capo ad un road movie fuori steccato che insegna qualcosa all’Europa delle barriere e all’epoca delle incompatibilità etniche e degli integralismi (“Sono troppo sensibile per essere un arabo”, proclama in una scena Fatah, destabilizzando pregiudizi e postazioni radicali), racconta che la dignità è più importante dell’onore e traccia un imperdibile toccante rendez-vous con il cinema più semplice e stellante. Cadenze pacate e spazio al dialogo, alle soste volute e riposanti del racconto che segue le orme del protagonista e del suo animale con pazienza e tenerezza. Niente di più. Ma l’eleganza abita qui, nella sobrietà spontanea che scarta l’artifizio ed entra nella sfera affettiva universale: emozionando con disinvoltura e profondità senza fare retorica.