Panorama
Apple TV+ ha condiviso con i fan il teaser della nuova comedy The Studio, con protagonista Seth Rogen, che è anche sceneggiatore, regista e produttore esecutivo insieme al candidato all'Emmy Evan Goldberg. La nuova serie farà il suo debutto il 26 marzo con i primi due episodi (sono 10 in totale), seguiti da un episodio ogni mercoledì fino al 21 maggio.
Trama
Seth Rogen interpreta Matt Remick, il nuovo capo dei Continental Studios in crisi. In un settore in cui i film faticano a rimanere vivi, Matt e il suo team di dirigenti in lotta combattono le proprie insicurezze, mentre si scontrano con artisti narcisisti e con i vili proprietari dell'azienda nella ricerca sempre più effimera di realizzare grandi film. Indossando il vestito buono che maschera un infinito senso di panico, ogni festa, set visit, decisione sul casting, riunione marketing e premiazioni offre loro l'opportunità di un successo scintillante o di una catastrofe che pone fine alla loro carriera. Da persona che mangia, dorme e respira cinema, Matt ha inseguito questo lavoro tutta la vita e ora potrebbe distruggerlo.
Cast
“The Studio” riunisce un cast stellare che comprende anche la vincitrice di Emmy, SAG e Golden Globe Catherine O'Hara, la candidata all'Emmy Kathryn Hahn, Ike Barinholtz e Chase Sui Wonders. Il candidato all'Oscar e vincitore di un Emmy Award Bryan Cranston apparirà invece come guest star.
Prodotta da Lionsgate Television, “The Studio” è creata dai vincitori di più Emmy Peter Huyck e Alex Gregory insieme a Rogen, Goldberg e Frida Perez. James Weaver, Alex McAtee e Josh Fagen della Point Grey Pictures sono anche produttori esecutivi insieme a Rogen e Goldberg.
Il nuovo progetto segue l'ultima collaborazione tra Apple TV+ e Rogen, la comedy Apple Original “Platonic”, recentemente rinnovata, in cui Rogen è protagonista e produttore esecutivo insieme a Rose Byrne.
TUTTE LE NEWS DI TELEVISIONE
Politicamente ha provato tutto. Ha problemi di denatalità, rifiuto culturale, diffidenza per ciò che è nuovo. L’annuale ritratto che ha appena tracciato il Censis restituisce un’Italia che «galleggia» in un eterno presente. E non riesce a immaginare il suo futuro.
Ma che Italia siamo? A fine anno è d’obbligo un check-up, un tagliando generale sullo stato del nostro Paese; e puntuale da 58 anni arriva il rituale Rapporto annuale del Censis che è l’unica autobiografia nazionale «in progress», una specie di autocoscienza che incrocia dati statistici e analisi sociologica. Di solito i mass media estrapolano un paio di slogan e un paio di immagini suggestive dal rapporto dell’Istituto di ricerca fondato da Giuseppe De Rita, nel giorno in cui esce; ma poi chi si prende la pena di leggere e commentare il volumone pubblicato da Franco Angeli?
La considerazione di partenza è di ordine politico. Come abbiamo scritto più volte anche noi, «le abbiamo provate tutte» tra governi tecnici o di transizione, sovranisti e populisti, «l’antipolitica asfaltante» e governi di centrodestra, di centrosinistra, di sinistra-pentastellati, ora di destra-centro. Ma queste formule, dice il rapporto, non hanno funzionato. «Non si capisce chi potrà prendere decisioni collettive difficili, e soprattutto metterle in atto». L’impossibile decisionismo, dunque. Che deriva, a nostro parere, soprattutto dall’impossibile sovranità politica e indipendenza nazionale in cui viviamo. Un deficit che viene prima della qualità dei leader e dei governi.
E gli italiani? Galleggiano, dice il Rapporto, sono bravi a muovere l’acqua per tenersi a galla; i gruppi sociali resistono grazie a «una continuata irradiazione adattiva», cioè si arrangiano. Resistono alla crisi ma non vanno avanti. Adattandosi, «abbiamo smarrito porzioni crescenti d’identità», vivendo sull’orlo di un declino senza ritorno. L’Italia, dice il Censis, è «una strana patria» con un millenario senso di appartenenza provinciale, ma ormai un popolo polverizzato con scarso senso della storia. E questo si traduce con un’assenza di traguardi e di coraggio, e una povertà di intenzioni. Non riusciamo a metter mano al nuovo, ma da questa barca non possiamo scendere. Gli italiani si ritirano dalla vita pubblica, e l’astensione è uno dei sintomi più evidenti.
Ma chi sono gli italiani? Il Censis non vede solo una mutazione antropologica ma anche morfologica degli italiani. Cambiano forma. Funzionano a pieno regime le fabbriche degli ignoranti; un’ignoranza «talvolta straripante, assedia il quotidiano e produce gravi distorsioni cognitive».
E poi ci sono i malesseri sociali; le diseguaglianze, o meglio, le diseguaglianze ingiuste; il collasso del sistema sanitario e in generale del welfare - che non è cosa di questo governo, ma è una tendenza crescente da anni - ma anche del sistema scolastico e universitario; l’incidenza del politically correct e dell’ideologia woke soprattutto sul linguaggio. Il rapporto aggiunge, a sorpresa, «il razzismo silente» degli italiani e comunque la difficile integrazione in una società multietnica, con i migranti passati nel giro di un ventennio da un milione e 300 mila a cinque milioni. Poi una serie di scenari, supportati da tabelle e dati significativi che investono la vita quotidiana, i matrimoni, la denatalità, gli orientamenti d’opinione.
Ma alla fine non si riesce a trovare una parola chiave, una sintesi finale che possa riassumere lo stato dell’Italia oggi.
Il Censis ha sempre offerto generose e spesso creative immagini per compendiare il nostro stato presente. Invece questa volta non si può trovare la sintesi in un’espressione, come se avessimo raggiunto quell’«innominabile attuale» di cui scrisse Roberto Calasso. Inviandomi il rapporto del Censis, De Rita ha scritto: «Continuiamo a pensare l’Italia». Al tema e all’espressione «pensare l’Italia» dedicai saggi e articoli e promossi perfino un convegno più di trent’anni fa. Sacrosanto auspicio, ma sento venir meno il Soggetto, l’Italia. Da qualche tempo non riesco più a pensare l’Italia, lo reputo un compito fuori tempo, fuori luogo, impraticabile, rivolto a un’entità ormai ineffabile e liquefatta. Noto, anzi che ogni tentativo di pensare il Paese, come fa il Censis, conferma che l’Italia non è più pensabile. Forse quel che definisco «l’infinito presente globale» ha assorbito il pensiero di un’identità, di una nazione, di un sistema-paese e della stessa italianità. Ho smesso di ripetere con Ezra Pound: «Credo quia absurdum. I believe in the resurrection of Italy». No, non credo più alla «resurrezione» dell’Italia. Il rapporto del Censis si conclude con un auspicio: anziché sperare di veder scomparire i nostri mali dovremmo piuttosto avere «la grazia di trasformarli». Impresa necessaria quanto proibitiva.
Neanche dieci anni fa pubblicai una Lettera agli italiani e girai l’Italia con un’ottantina di serate a teatro in forma di «comizi d’amore all’Italia»; oggi non riuscirei a farli, non ne avrei la motivazione e la voglia, mi sembrerebbe fuori contesto, a tempo scaduto.
All’epoca era l’appello a un risveglio, prima che fosse troppo tardi, e lo spettacolo si risolveva in un gesto simbolico: rovesciare la clessidra, ovvero quando il tempo sta per finire, bisogna capovolgere la clessidra e ricominciare daccapo. Ora, che la clessidra è stata rovesciata di continuo con una serie di cambiamenti politici apparenti - «le abbiamo provate tutte», si diceva agli inizi - l’impressione è che pensare l’Italia sia un parlare vano, a vuoto o a sordi con lo sguardo rivolto altrove. Dopo averlo fatto per una vita, non riesco a pensare l’Italia. La speranza è che sia solo un malessere passeggero o un sopraggiunto limite di chi vi parla. n
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Una sinistra che urla ma con poca sostanza. I compagni della coalizione di centrodestra, litigiosi però uniti. L’Europa e gli americani che danno credito. Nell’anno che arriva, l’esecutivo di Giorgia Meloni può davvero cambiare verso al paese.
Dureremo fino al 2027». Nell’eventuale attesa, Giorgia Meloni può già bearsi. Nulla fa presagire clamorosi impedimenti. Bettino Craxi rimase a Palazzo Chigi 1.093 giorni. Se anche il 2025 filasse liscio, la premier salirebbe così sul podio repubblicano: terzo governo più longevo di sempre. In patria, del resto, nel 2025 non s’intravedono grandi pericoli. Elly Schlein, che sogna di affrontarla alle prossime politiche, rimarrà a malapena leader del Pd. Giuseppe Conte, affetto da fregolismo congenito, sarà tallonato dal deposto fondatore, Beppe Grillo, che vuole sottrargli il simbolo e l’onore. Gli altri pretendenti si lambiccano: chi tenterà di riesumare il centrino, il declinante Beppe Sala o il riscossore Ernesto Maria Ruffini? Davanti a tali insolvibili enigmi, Giorgia può dunque dormire fra due guanciali di piuma d’oca.
Per carità, non è che nella maggioranza tutto fili liscissimo. Forza Italia e Lega baruffano, enfatizzando il gioco delle parti: moderati e destroni. Certo: Antonio Tajani, capo dei forzisti, non stravede per Matteo Salvini, segretario leghista. Ma i due vicepremier sono ormai maestri nell’arte del tiremmolla. D’altronde, nonostante qualche screzio, il centrodestra in parlamento rimane unito. E l’imminente 2025? «L’anno che verrà sarà quello delle riforme che spaventano molti. Andremo avanti sul premierato, così temuto dai campioni olimpici dei giochi di palazzo, sull’autonomia differenziata, sulla riforma fiscale e della giustizia» scandisce Meloni dal palco di Atreju. La separazione delle carriere, di cui si parla da un trentennio, sembra quella meglio avviata, nonostante la furibonda opposizione di giudici e pm. Giorgia, però, insiste: «Vogliamo liberare la magistratura dal controllo della politica e delle correnti politicizzate». La riforma più scivolosetta è invece l’autonomia differenziata, vista l’opposizione dei governatori forzisti.
Non sarà però il proscenio italiano a regalare grandi soddisfazioni. Svecchiare il Paese resta un’impresa defatigante e ciclopica. In Europa, invece, non potrebbe andar meglio. Come ama ricordare Meloni, il governo italiano è quello più stabile tra i grandi Paesi del continente. Germania e Francia, per lustri, hanno giganteggiato. Adesso fronteggiano una crisi feroce e inedita. A Berlino Olaf Scholz si è dimesso. Il 23 febbraio 2025 ci saranno le elezioni anticipate, ma le possibilità di vittoria per il cancelliere rasentano lo zero. I suoi socialdemocratici arrancano nei sondaggi. La maggioranza del Bundestag sarebbe invece dei popolari, seguiti dall’estrema destra.
Comunque vada, s’annunciano tempi cupissimi. La recessione sarà aggravata dal crollo del settore automobilistico. L’instabilità politica rischia di essere perfino peggiore di quella francese. Emmanuel Macron ha perso le elezioni. S’è arroccato all’Eliseo, ma è ostaggio di destra e sinistra. Lo scorso settembre ha nominato primo ministro Michel Barnier. Dopo tre mesi s’è dimesso, infrangendo ogni record: il governo più breve della Quinta repubblica. Così, monsieur Macron si ritrova isolato in patria e sempre meno influente in Europa.
Tutto il contrario dell’arcinemica italiana. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, è stata eletta con la maggioranza più striminzita e rissosa della storia. Non può fare a meno di Meloni e dei conservatori di Ecr. Ha già nominato vicepresidente esecutivo Raffaele Fitto, armato di «un pacchetto di competenze che vale mille miliardi» gongola Giorgia. La prossima concessione di Ursula potrebbe essere imminente: anticipare al 2025 la clausola di revisione sul Green deal dell’auto elettrica. A quel punto, l’Italia chiederà di rimuovere anche il veto sui biocarburanti. Sono l’avanguardia dell’Eni, il nostro colosso energetico, e uno dei capisaldi del Piano Mattei, che prevede robusti investimenti negli Stati africani.
Scholz, Macron e Von der Leyen arrancano. Ma non è l’unica contingenza internazionale favorevole. Nel frattempo, avanza lo schiacciasassi Donald Trump. I profeti di sventura, oltre a sognare l’isolamento in Europa, speravano che le pacche con il vecchio presidente americano, Joe Biden, facessero incarognire il suo successore. Macché. «Meloni è fantastica» la esalta Trump. Lo stesso fervore viene mostrato pubblicamente da Elon Musk, l’imprenditore più ricco e influente del pianeta: «Ha fatto cose incredibili». I rapporti con la presidente del Consiglio, puntellati anche da una scenografica visita a Roma del tycoon, sono ormai strettissimi. I tweet a sostegno dell’amica sono sperticati.
La premier punta, quindi, a diventare la mediatrice tra le sponde atlantiche. Tanto da voler organizzare nei prossimi mesi tramite lo «zio Elon», come lo chiamano nel clan Trump, una chiamata chiarificatrice tra Von der Leyen e il presidente americano, che minaccia sostanziosi dazi contro l’Europa. Avvisaglie pericolose. Così il ruolo di Meloni, possibile portiera tra Bruxelles e Washington, sarebbe ancor più strategico. Difatti, l’opposizione non perde occasione per denunciare ingerenze di Musk nella politica italiana. C’è da capirli, comunque. A sinistra continuano a tribolare. Il futuro non pare certo sfavillante. Elly tenta faticosamente di accreditarsi come l’anti Giorgia: ovvero, colei che la sfiderà nel 2027. Campa cavallo. E poi, la segretaria fatica ancora a imporsi tra i cacicchi, figurarsi nel sedicente campo largo. L’unica, insperata, soddisfazione è di essere ancora al suo posto. A marzo 2025 festeggerà due anni filati al Nazareno. Chi l’avrebbe mai detto? Più di Enrico Letta e Nicola Zingaretti, i suoi predecessori.
Per il resto, a parte qualche slogan ben riuscito, c’è poco da brindare. La «testardamente unitaria» si ritrova, ogni volta, a dover ripartire dall’inizio. Sui Cinque stelle, ovviamente, non può contare stabilmente. Il partito è ormai nelle mani di Giuseppi, il più celebrato trasformista della storia repubblicana. Si autoproclama «progressista indipendente». Che vuol dire? «Come se fosse Antani» chiarirebbero gli impenitenti di Amici miei. Il Conte Mascetti, sul modello «prematurata la supercazzola o scherziamo?», dice ad Atreju: «Non farò lo junior partner del Pd». Dunque, caro Giuseppi? Ancora una volta: boh. Eppure, viste le asfittiche percentuali, verrà a miti consigli. In primavera dovrebbero andare al voto cinque regioni. In Veneto, per esempio, la stantia alleanza è già siglata. Tutti insieme, poco appassionatamente. Mentre in Campania si spera nella clemenza di Schlein, che potrebbe concedere la candidatura allo scalpitante Roberto Fico, già presidente della camera pentastellato. Todos caballeros, anche qui. Come alle regionali in Liguria, dove il Movimento ha appoggiato l’ex pluriministro dem, Andrea Orlando. Alla fine, però, ha vinto lo sfidante di centrodestra: Marco Bucci, ex sindaco di Genova. Tra qualche mese, si voterà quindi per sostituirlo. Come noto: errare è umano, perseverare è diabolico. Così il campetto largo medita di ripresentare lo sconfitto Orlando, che s’è pure dimesso dal parlamento per fare lo scornato capo dell’opposizione in Liguria. Ed ecco l’ideona: visti i natali spezzini, perché non schierarlo ancora a Genova la prossima primavera? A quel punto, i Cinque stelle, che l’hanno già appoggiato nella sfortunata corsa a governatore, non potrebbero esimersi. Arroccato nel suo villone di Sant’Ilario, l’Elevato intanto medita vendetta. Giuseppi gli ha tolto l’adorato ruolo di garante e la profumata consulenza da 300 mila euro. Adesso Beppe, a capo della velleitaria Armata Brancagrillone, cercherà in ogni maniera di far fallire i già confusi propositi dell’azzeccagarbugli di Volturara Appula. A partire, magari, proprio dalle elezioni genovesi.
Il Conte Mascetti, tra l’altro, dovrà guardarsi le spalle anche dal Centro. Nella commedia politica italiana, difatti, c’è un nuovo protagonista: il tassator cortese, al secolo Ernesto Maria Ruffini. Guidava, da tempo immemorabile, l’Agenzia dell’entrate. S’è appena dimesso, colto da insopprimibili bollori. Sarà lui, pare, a tentare di riesumare il Centro: quell’ameno luogo elettorale, popolato un tempo dalla Dc. A sostenere il suo illustre profilo si scomodano leggendari cattolici di sinistra: da Rosy Bindi a Romano Prodi. Del resto, visto che Elly non può sempre contare su Giuseppi, non è meglio aprire un secondo forno, come insegnano gli avi scudocrociati?
Ed ecco un’altra ideona: schierare lo sceriffo di Nottingham tricolore. Autore, tra gli altri, del mancato bestseller L’evasione spiegata a un evasore. Con la pregiatissima prefazione del professor Prodi e l’immancabile postfazione dell’ex ministro Vincenzo Visco, soprannominato «Dracula». Comunque, il ruolo è ambito: pure Beppe Sala, sindaco di Milano, freme all’idea. Tanto da affossare già Ruffini: «È bravissimo, ma lo conoscono in pochissimi». Mal che vada, potrebbe scendere in campo, con la flemma che lo contraddistingue, un’altra leggenda: «Er moviola», l’eterno Paolo Gentiloni, ex premier e commissario europeo. Prodi permettendo, s’intende. Come sarà, dunque, il 2025? Si potrebbe sintetizzare con un detto capitolino, da rivolgere in occasione delle feste alla romanissima Giorgia: «Magna tranquilla». Con un’opposizione così, rischia di governare per i prossimi trent’anni.
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Viaggio tra i progetti più innovativi della compagnia energetica
Arrivano le cassette stradali di alto design
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A Firenze, Bari e Genova e in altre località sono già installate, presto lo saranno in altre città italiane. Sono le nuove cassette stradali Enel, di cui raccontiamo la storia. Non si tratta di oggetti banali: la cassetta Enel è stata riconosciuta valida per la candidatura dell’ADI Design Index, premio promosso dalla prestigiosa Associazione per il Disegno Industriale (ADI) e rivolto all’eccellenza del made in Italy... (continua a leggere)
Il fotovoltaico galleggiante: sei ragioni per sceglierlo e incrementarlo
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Acqua e sole perfettamente in coppia: un matrimonio energetico di cui si vedono gli effetti (più che positivi) in Piemonte, a Venaus, nella centrale idroelettrica con impianto fotovoltaico galleggiante - o flottante che dir si voglia - del Gruppo Enel. Azienda che ha avviato, nell’Innovation Lab di Catania, dei test per questa tecnologia, destinati ad analizzare i parametri del flottante, dai numeri legati alla produzione (a Venaus, per esempio, si tratta di 1 MW) e dell’eventuale impatto ambientale...(continua a leggere)
Un soffio di energia pulita: il sistema messo a dal Gruppo Magaldi in collaborazione con Enel
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Le Comunità Energetiche Rinnovabili con Enel: vantaggi e prospettive
In sigla si dice CER, per esteso Comunità Energetiche Rinnovabili. Ne avete sentito parlare? Sono associazioni di enti pubblici, cittadini, attività commerciali o imprese PMI che decidono di dotarsi di impianti per la produzione e la condivisione di energia pulita purché siano collegati alla stessa cabina primaria di distribuzione dell’energia elettrica. (continua a leggere)
Leggi tutti gli articoli dello «SPECIALE ENEL».
1) Arrivano le cassette stradali di alto design
2 Il fotovoltaico galleggiante: sei ragioni per sceglierlo e incrementarlo
2) Un soffio di energia pulita: il sistema messo a dal Gruppo Magaldi in collaborazione con Enel
4) Comunità energetiche rinnovabili, vantaggi e prospettive dell’energia a km0 di Enel
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Con la fuga di Bashar al-Assad, si reitera lo sbaglio fatto con Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi: esultare per il dittatore caduto. Purtroppo non si può misurare il mondo con un metro ormai inservibile.
Ci risiamo. Il copione si ripete puntualmente, con tutti i suoi errori e noi incuranti, nonostante le lezioni del passato. Da svariati decenni, l’Occidente, la Nato, gli Stati Uniti e al loro seguito l’Europa e l’Italia esultano per la caduta del dittatore, e sotto sotto tifano, se non sostengono, direttamente o indirettamente, il rovesciamento armato del potere. Vedono nella fine del regime autoritario un trionfo della democrazia, dei diritti, della libertà. Poi, dopo il dittatore arriva il Califfato jihadista o comunque lo Stato islamico, arrivano i fanatici dell’Islam, fino a ieri definiti terroristi, e scoppia la lotta sanguinosa tra le fazioni. Dall’autocrazia alla teocrazia. Accadde in Iraq al tempo di Saddam Hussein, poi in Libia al tempo di Muhammar Gheddafi, ora in Siria al tempo di Bashar al-Assad, nonostante i rassicuranti preliminari. E cito solo i casi più famosi: ricorderete l’esultanza occidentale per la primavera araba nei Paesi del Maghreb dove furono abbattuti regimi autocratici e paternalistici e poi arrivarono al loro posto i fanatici della Fratellanza Islamica, le violenze e l’instabilità dell’area? Dall’Algeria alla Tunisia e all’Egitto, e non solo. Intanto prendeva corpo l’Isis e la minaccia terroristica sbarcava in Europa, a colpi di stragi e agguati.
Lo stesso errore di giudizio compiamo nei confronti dell’Iran, da decenni accusato di fomentare il terrorismo, senza renderci conto che la sua matrice, da Al Qaeda all’Isis, passando per tanti gruppi e assassini solitari, è quasi tutta nell’Islamismo sunnita, mentre l’Iran è sciita. Da decenni, almeno dall’Afghanistan in poi, l’Occidente arma e sostiene fanatici per abbattere altri regimi che considera nemici, potenziando orde di nemici più feroci. L’ignoranza geopolitica e geoculturale produce alle volte brutti scherzi.
Il grado di inimicizia lo misuriamo con parametri sbagliati. Una dittatura è un inaccettabile passo indietro per una democrazia e per uno stato di diritto; ma è un passo avanti rispetto alla sharia e al jihad, la guerra santa islamica. Bisogna sempre fare paragoni per capire se si sta facendo un passo avanti o indietro, capire i soggetti in campo e le alternative. In quei contesti, le dittature, pur cruente, sono stati regimi di modernizzazione autoritaria e di transizione militare, argini rispetto ai regimi fondamentalisti e integralisti.
Non si possono usare i paradigmi della storia d’Occidente in Africa, in Asia o in Medio Oriente. Perché poi finiamo con l’ammazzare, come disse Winston Churchill, «il porco sbagliato», e colpire un male minore e circoscritto aprendo la strada al male maggiore ed espansivo. Infatti quei regimi autocratici avevano un carattere prevalentemente nazionalistico ed erano impegnati dentro i propri confini, non cercavano alleanze espansionistiche e guerre sante. Lo Stato islamico, invece, si allarga al di fuori dei confini nazionali, si collega alla fratellanza islamica, vuole espandersi e cerca alleanze per conquistare e convertire, e si pone in antagonismo radicale con l’Occidente miscredente, sia esso ateo o cristiano. E la Siria ora passa sotto l’area d’influenza di un’autocrazia d’ispirazione islamica, come la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. La speranza è che una volta al potere i terroristi di ieri diventino illuminati e moderati e vengano tenuti a freno dall’alleato turco che perlomeno ha senso della realtà. Ma visti i precedenti in Iraq, in Libia e nelle altre nazioni arabe, non c’è da nutrire molta fiducia. Nel frattempo Israele bombardava anche la Siria col sostegno americano.
Tira una brutta aria nel mondo, che ha coinciso, guarda caso, con l’amministrazione dem di Joe Biden negli Stati Uniti. Troppi focolai di guerra, troppi fronti aperti, troppi colpi di Stato striscianti, troppa intermittenza nel giudicare le tornate elettorali: se vincono i partiti e i leader graditi agli Stati Uniti sono valide e corrette, se vincono quelli graditi alla Russia o ad altre potenze non sono valide e sono truccate. I tentativi di manipolazione e le interferenze sono probabili, ma da ambo i versanti. Popoli europei come i romeni perdono la loro sovranità popolare, premessa alla perdita della sovranità politica e nazionale, se divergono nel voto dalle Direttive Generali imposte dai Comandi. In Occidente provano a mandare fuori strada i leader e i movimenti non allineati con le inchieste giudiziarie, le criminalizzazioni, i cordoni sanitari e le campagne mediatiche, come è il caso ora di Marine Le Pen; altrove si spingono a modificare o respingere i verdetti elettorali o addirittura ispirano golpe, eliminazioni e reclutano classi dirigenti asservite.
Tutto questo, oltre ad alterare il quadro di molti Paesi e a interferire pesantemente sul diritto all’autodeterminazione dei popoli, produce effetti deleteri sulla scacchiera internazionale: esaspera gli antagonismi, arma, coalizza e ingrossa schieramenti ostili, genera controffensive e controstrategie d’infiltrazione coloniale, chiama in causa e risveglia potenze finora dormienti.
Non bastava quel che sta succedendo tra Israele, Palestina, Libano e in tutto il Medio Oriente, o in Corea, in Ucraina e adesso in Romania, cioè in Europa; ora è di turno anche la Siria; nei quattro anni di amministrazione interventista americana, il quadro mondiale è stato violentemente scosso, fino a diventare incandescente, la tensione con la Russia e l’Iran è salita alle stelle, il rapporto con gli Stati dei Brics si è fatto più spinoso e il rischio di una guerra mondiale è cresciuto enormemente. Troppi arsenali atomici sono in fibrillazione. E noi dovremmo esultare perché il dittatore Assad è caduto e hanno vinto i terroristi jihadisti... Quanti cervelli fulminati sulla via di Damasco...
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Sono aree di costa e di terra dove gli ecosistemi e la biodiversità vengono protetti portando avanti il loro sviluppo in un’ottica di sostenibilità. L’Italia ne ha 21, quattro si trovano in Veneto, che sa a brillare per l’attenta tutela dell’ambiente e della natura. A beneficio dell’intero Paese.
L’Italia al momento ne conta 21 e ben quattro, circa un quinto del totale nazionale, si trovano in Veneto. Sono le cosiddette Riserve della Biosfera, aree - marine, costiere, terrestri o una combinazione delle stesse - riconosciute meritevoli di menzione dall’Unesco poiché corrispondono a un preciso modello virtuoso. A un approccio peculiare e vincente: la corretta gestione del territorio, che si traduce nella tutela degli ecosistemi e della biodiversità attraverso l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali, arreca benefici alle comunità locali e alla loro economia.
Il quartetto veneto contempla le aree del Delta del Po, Monte Grappa, Po Grande e Colli Euganei. In ordine di tempo, gli ultimi sono i più recenti: hanno conquistato il prestigioso titolo di Riserva della Biosfera da pochi mesi, nel luglio 2024. Terra puntellata da 81 colline vulcaniche, si estende per 341 chilometri quadrati, interessando15 paesi. È uno straordinario bacino termale, il più grande d’Europa, nonché un trionfo di vegetazione e specie animali, ma soprattutto un laboratorio a cielo aperto per l’agricoltura sostenibile e l’ecoturismo. Una somma di virtù, che l’Unesco ha individuato e premiato.
L’ingresso nella Rete delle Biosfere per l’area Monte Grappa è invece datato 2021. Situata nelle Prealpi Venete, la zona abbraccia 25 comuni appartenenti alle province di Belluno, Treviso e Vicenza. Qui la presenza di monti, il Massiccio del Grappa in primis, ma anche di colline, alta pianura e fiumi hanno agevolato l’insediamento di numerose specie e la creazione di meravigliosi habitat naturali. Per l’Unesco questa zona rappresenta «un ponte bio-ecologico tra la pianura padana e l’arco alpino, un punto di unione-divisione, quindi di equilibrio e scambio, tra climi, ecosistemi, culture ed economie».
Il 2019 è stato l’anno della nomina del Po Grande, inteso come tratto centrale del fiume più lungo d’Italia e bacino sensibilmente influenzato dalle attività dell’uomo. Comprende 13 habitat di interesse comunitario e si estende nell’area di 85 comuni e 3 regioni (Emilia-Romagna e Lombardia, oltre naturalmente al Veneto). Anche in questo caso l’incredibile biodiversità di flora e fauna, la promozione di numerose attività sportive e la cultura enogastronomica, tutto sotto il segno delle best practice, fanno del sito un eccellente esempio di interazione tra uomo e natura in nome della conservazione e della sostenibilità.
Il cerchio si chiude con l’area del Delta del Po, eletta dall’Unesco nel 2015. Appartiene a 16 comuni, 9 dei quali solo in Veneto (Rosolina, Porto Viro, Taglio di Po, Adria, Ariano nel Polesine, Porto Tolle, Papozze, Corbola, Loreo, per essere precisi). Le opere di bonifica delle acque portate avanti negli anni hanno favorito l’agricoltura e la pesca, grazie alla grande generosità di questa terra di lagune, un polmone verde ricco di sfumature di blu.
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Il talento di plasmare il vetro per renderlo arte, quello di costruire utilizzando solo delle pietre. Il fascino senza età dei giochi di strada, la profonda intensità del canto lirico e il rito puntuale delle migrazioni del bestiame. Grandi tradizioni venete da proteggere, raccontare. E tramandare.
Vetro, fuoco, genio e mirabile manualità. È l’arte antichissima delle perle di vetro. Le prime testimonianze scritte e documentate risalgono al XIV secolo e non stupisce affatto che siano legate a doppio filo alla città di Venezia, ma anche alle isole di Murano, Burano, Torcello e Pellestrina, da sempre autentici laboratori di bellezza e magia.
L’arte delle graziose e coloratissime perle, create dalla maestria dei cosiddetti Perlai e utilizzate per dare forma a meravigliosi manufatti, si è giustamente meritata - a partire dal 2020 - un posto d’onore nella lista Unesco relativa ai patrimoni culturali immateriali in cui hanno titolo di rientrare per l’appunto «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how, come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi, che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale». Tale patrimonio, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi «in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana». È quanto si legge nell’articolo 2 della Convenzione per la Salvaguardia del patrimonio culturale immateriale redatta a Parigi nel 2003 e ratificata dall’Italia nel 2007, l’architrave normativa e logica di questi prestigiosi riconoscimenti.
Oltre all’arte delle perle di vetro, il Veneto può vantare un nutrito elenco di beni immateriali. Verona, per esempio, è il palcoscenico del famoso Tocatì, il Festival internazionale dei giochi in strada che coinvolge ogni anno migliaia di persone provenienti da ogni angolo del mondo, in una logica di condivisione e salvaguardia di una cinquantina di attività ludiche tradizionali. Non solo. Se si parla della città di Romeo e Giulietta, è pressoché naturale pensare all’Arena, il più grande teatro all’aperto d’Europa, nonché indiscusso tempio della lirica. Così, dal momento che anche il canto lirico italiano è entrato a far parte della lista Unesco, precisamente dal 2023, è chiaro a tutti quanto sia centrale e dirimente la ricca programmazione che di stagione in stagione trasforma l’Arena nella capitale mondiale dell’operistica.
Al bel canto, si aggiungono anche la pratica della transumanza e l’arte dei muretti a secco, che ancora una volta in questa vivace e laboriosa regione a Est dell’Italia sono vere e proprie eccellenze. Alla prima, ancestrale attività che affonda le sue radici nella preistoria e consiste nel tradizionale rientro delle mandrie dall’alpeggio estivo alle aziende agricole locali, San Pietro in Gu, piccolo comune in provincia di Padova, ha dedicato una festa, che cade nel periodo autunnale quando l’erba sull’altopiano di Asiago inizia a scarseggiare, le temperature si abbassano e ciò causa la diminuzione della produzione di latte. Gli animali sfilano pacifici nel centro del paese e contestualmente i visitatori possono degustare prodotti tipici locali in vari stand, curiosare tra attrezzi e macchinari agricoli e assistere a dimostrazioni di come si producono i formaggi tradizionali.
Chiude il cerchio dei patrimoni immateriali del Veneto l’arte dei muretti a secco, iscritta nella lista nel 2018. È la pratica, anch’essa molto antica e tramandata dalle comunità rurali, di costruire strutture senza usare altri materiali, se non le pietre, ponendole con raffinata maestria una sopra l’altra, mentre solo in alcuni casi è concessa l’aggiunta di terra asciutta. I muretti realizzati con questa tecnica vengono impiegati come rifugi per l’agricoltura e l’allevamento di bestiame, ma svolgono un ruolo importante nella prevenzione di frane, inondazioni, valanghe e contrastano l’erosione del suolo e la desertificazione. Sono sì patrimoni immateriali, ma dal profondo effetto materiale.
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Da Venezia fino a Verona, poi Vicenza con le ville palladiane e l’orto botanico di Padova. Scorci poetici tra le Dolomiti e sulle colline, opere di difesa, affreschi vividi, tracce custodite dall’acqua.
Li si ammira alzando gli occhi verso l’alto o immergendosi sott’acqua, camminando in mezzo alla bellezza o respirandone l’intensa immensità. Racchiudono storie, memorie di un tempo antico che è rimasto, nei secoli, splendidamente intatto. Sono i luoghi della meraviglia, i siti del Veneto parte del patrimonio materiale mondiale dell’umanità secondo l’Unesco. Rappresentano «l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future… Una fonte insostituibile di vita e ispirazione» spiega, con comprensibile enfasi, la celebre organizzazione delle Nazioni Unite. Nella regione se ne contano ben 9 su un totale nazionale di 60. È una preponderanza, un innegabile peso specifico. Una matematica del sontuoso, dell’incredibile ma vero, a cui vanno doverosamente aggiunti i patrimoni immateriali e le riserve della biosfera (vedi gli approfondimenti nelle pagine seguenti), rendendo il Veneto un campione di splendore multiforme.
Raccontare i 9 siti è a sua volta un itinerario, un’esplorazione che comprende una pluralità di elementi: altitudini e mondi sommersi, storia e cultura, natura e città. Dalla dimensione urbana è opportuno partire, chiamando in causa un’icona globale, l’intramontabile Venezia, fulcro di romantiche suggestioni, di un legame inscindibile con l’acqua. Tutta la Laguna, il sistema di isole che la compone, sono «un eccezionale sito archeologico ancora animato di vita», «un ponte tra l’Oriente e l’Occidente». C’è poi Verona, con i suoi resti romani, le porte monumentali e le fortificazioni, gli incroci romantici di amori travagliati ma per questo indimenticabili (Romeo e Giulietta, si sa, non moriranno mai), l’Arena che ingloba fisico e intangibile: è architettura e insieme culla dell’ingegno e della voce umana, quel canto lirico altrettanto tutelato dall’Unesco.
A Padova, all’interno dell’università, si estende un orto botanico creato nel 1545: «Il più antico del mondo occidentale che conservi la sua forma e ubicazione iniziale». Un record di resistenza, giustamente premiato e non solo per meriti di longevità: ha contribuito ai progressi della medicina grazie alle piante officinali coltivate nel suo perimetro verde.
Ben 23 palazzi di Vicenza e 24 ville nobiliari nel territorio circostante, opere mirabili di Palladio, architetto vissuto per buona parte del 1500, combinano il gotico veneziano con un classicismo ispirato all’architettura romana. Sono case che sembrano templi, arricchite con scalinate monumentali e circondate da vasti e ariosi portici. Ammirarle, ancora oggi, ne trasmette quell’equilibrio tra centro di potere e luogo di svago. Tra volontà di potenza e bisogno, tutto umano, di evasione. Se nelle ville lo sguardo si concentra, si focalizza sui dettagli, tra le Dolomiti si smarrisce, si tuffa nel luccichio del bianco, si abbandona a «una vasta gamma di colori dovuta ai contrasti tra le morbide fasce verdi dei boschi e delle praterie e le cime rocciose, estremamente varie sia per forma che per componenti» come si legge nel sito ufficiale dell’Unesco.
Se le montagne, ora più spigolose ora arrotondate catturano l’immaginazione e producono un ubriacante stordimento, lo stesso fanno le Colline del prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, frizzanti come il nettare che producono; geometriche – ma con licenza d’estro – come i filari di viti in orizzontale e verticale che corrono sulla loro superficie, celebrando l’avvicendarsi delle stagioni, la ciclicità inesausta e inesauribile del tempo.
Tali luoghi sono l’epitome dell’armonia tra la generosità della natura e l’intervento dell’estro umano. Che trova la sua apoteosi, in un misto di creatività e savoir-faire, di fantasia e precisione, nei cicli affrescati del XIV secolo di Padova: otto complessi di edifici con al loro interno dipinti realizzati da diversi artisti, accomunati da un’unità di stile e contenuto. Una sorta di pennellata corale. Il riferimento è senz’altro la Cappella degli Scrovegni di Giotto, ma è l’inizio di un percorso nel calore del colore, non un mero approdo.
Completano questa ricca rassegna due poli di grande interesse antropologico. Il primo sono i siti palafitticoli preistorici dell’arco alpino, un fedele fermo immagine del passato: mostrano com’era la vita nelle prime società agrarie in Europa tra il 5.000 e il 500 prima di Cristo. Il loro ingrediente segreto è l’essere sommersi: trovandosi sott’acqua, si sono conservati meglio nel tempo. Così è possibile studiarli, anche grazie a tecnologie di ultima generazione. L’ultimo sito sono le opere di difesa veneziane tra il XVI e il XVII secolo, le prove di resistenza dalla Repubblica di San Marco, la Serenissima. Che era tale anche perché riusciva a proteggersi dalle minacce esterne ai suoi traffici costieri. Se questo patrimonio fortificato dell’umanità è arrivato fino a noi, se ancora oggi possiamo viverlo e celebrarlo, è anche per il suo intuito pioneristico, per quella capacità di strategia nel preservare il suo bene più prezioso: la sua unicità.
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Viaggio nei siti di una regione unica al mondo
Una ricchezza da raccontare
Luca Zaia, Presidente della Regione del Veneto
Il patrimonio materiale e immateriale riconosciuto dall’Unesco nel territorio del Veneto comprende nel suo insieme una realtà quanto mai varia e diversificata. Se si volesse trovare un denominatore comune, andrebbe ricercato proprio nella diversità e nella specificità di ciascun bene, rispetto alla classificazione, alla tipologia, e soprattutto ai valori rappresentati, con aspetti storico-artistici e culturali, naturalistici, geologici, scientifici, ambientali, antropici e via dicendo.
La diversità del patrimonio è senza dubbio un elemento intrinseco alla sua ricchezza, che rispecchia un fattore centrale, anche e soprattutto sul piano identitario, per la nostra regione. L’ampiezza della casistica e la varietà delle situazioni riscontrabili nel complesso di questo patrimonio comportano di necessità una particolare cura nel governo, e richiedono, oltre a un’azione comune di sostegno, anche attenzioni specifiche, strategie particolari e mirate.
La Regione, come Ente sovraordinato, è chiamata a intervenire con sempre maggiore energia nelle complesse e articolate tematiche di tutela e conservazione, di gestione, di fruizione e promozione, che tutti gli attori locali, in primo luogo i soggetti istituzionali, le Amministrazioni e gli Enti pubblici, hanno il compito di affrontare con particolare cura riguardo ai beni posti sotto la tutela dell’Unesco.
Questi temi trovano corrispondenza in una pluralità di competenze e di funzioni istituzionali che la Regione esercita, e che devono essere trattate e approfondite in riferimento specifico al patrimonio Unesco. Se, infatti, risulta ormai evidente che di per sé la nomina a una lista Unesco non è sufficiente a stimolare o attuare processi radicali di trasformazione, sono piuttosto le Amministrazioni e gli Enti del territorio che vengono chiamati a «capitalizzare» il riconoscimento internazionale, per pianificare e investire in maniera accurata nella conservazione dei beni e nella valorizzazione dei contesti locali, per ottenere effetti positivi e benefici sull’intero territorio.
Il patrimonio riconosciuto dall’Unesco nel Veneto coincide con un aspetto di importanza strategica e di elevato potenziale per la crescita e lo sviluppo del territorio, ponendosi come un insieme di altissima visibilità in ambito internazionale e, anche per la sua la natura ampiamente differenziata, individua senza dubbio un livello di particolare attenzione sul versante della governance locale.
La Regione del Veneto si è perciò nel tempo impegnata a intervenire con sempre maggiore incisività nelle complesse e articolate tematiche di supporto alla tutela e conservazione, nonché di promozione e fruizione, anche mediante una politica di gestione condivisa delle istanze provenienti dagli attori interessati, indicando misure sempre più efficaci di coinvolgimento della cittadinanza e di tutti gli stakeholders del territorio.
Tracce di una cultura viva
Federico Caner, Assessore al Turismo della Regione del Veneto
Il Veneto, una Regione ricca di storia, cultura e paesaggi straordinari, custodisce un patrimonio che è stato riconosciuto e valorizzato a livello internazionale grazie all’inclusione di numerosi siti nel prestigioso elenco del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’Unesco. Questi luoghi non sono solo simboli di un passato glorioso, ma rappresentano anche la testimonianza viva di una cultura che ha influenzato e continua a influenzare la storia dell’arte, dell’architettura e del pensiero europeo e mondiale.
La bellezza e la ricchezza culturale del Veneto sono un tesoro da ammirare, ma soprattutto un’eredità da custodire con cura e rispetto. In questo viaggio tra le meraviglie della Regione, ogni passo ci avvicina alla comprensione di quanto sia straordinario il connubio tra uomo, storia e natura, che rende il Veneto uno dei luoghi più affascinanti e preziosi del mondo.
Questa raccolta ci invita a riflettere sul valore storico e artistico del territorio, ma anche sulla responsabilità che tutti noi abbiamo nel preservare e trasmettere questo immenso patrimonio alle future generazioni. Ogni sito, con la sua unicità, rappresenta un frammento della nostra identità collettiva e della nostra storia condivisa.
Il Veneto e i suoi Siti Patrimonio Unesco non solo attraggono milioni di turisti ogni anno, ma sono pure il cuore pulsante di una comunità che vive e preserva il suo patrimonio con orgoglio. Il Veneto, quindi, non è solo una Regione da visitare, ma un luogo da vivere e conoscere. Un invito a scoprire e a rispettare la bellezza che ci circonda.
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