Panorama
Passeggiare per le strade durante il mese di dicembre rientra tra le attività preferite dagli amanti del Natale, e mentre i negozi si sfidano a colpi di luci e festoni, a beneficiarne sono i turisti e i consumatori, estasiati dall'atmosfera che si respira. Spesso però, a dare più soddisfazione sono i grandi marchi della moda. Anche questa volta infatti, si sono rivelati pronti ad abbracciare e celebrare il periodo più amato e, come ogni Natale, non hanno badato a spese. Se già nel corso dell'anno le maison si sono impegnate a fondo per realizzare delle piccole finestre narranti del loro heritage, il periodo natalizio ha dato loro la possibilità di costruire delle vere opere d'arte, sempre più spesso richiedenti la collaborazioni di celebri artisti del settore.
Un po’ come ha fatto Louis Vuitton che, per il nuovo temporary store di New York sulla 57esima strada, ha innalzato sulla facciata della boutique un’istallazione di 16 metri progettata dall’architetto giapponese Shohei Shigematsu.
(Louis Vuitton)
Quest’anno la maison Dior per nutrire la magia delle feste si è lasciata ispirare da miti e leggende che nelle vetrine vediamo saltare fuori direttamente dalle pagine. Unicorni, cavallucci marini, scimmie, leoni e coralli hanno trovato la loro dimensione in un tripudio di colori e luci, affiancati da incantevoli composizioni floreali.
A decorare le vetrine di Fendi in tutto il mondo invece c’è un allestimento che sfida la gravità. Composto dal nome Fendi ispirato al tipico vetro di murano e da varie it bag, packaging e decorazioni natalizie, l’albero in vetrina ha reinterpretato un antico bozzetto disegnato da Karl Lagerfeld nel 1984, piazzandosi poi in cima un paffuto Babbo Natale.
Politica
Pichetto Fratin: "La nuova Commissione sterzi sulle follie della transizione energetica"
24 November 2024
L'intervento a Matera con il direttore Maurizio Belpietro e il Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica durante la prima tappa di «Panorama on the road».
Il problema dell’Europa è l’Europa, non sono i dazi, non è Trump ma la sua capacità di liberarsi dai pregiudizi dell’ideologia green, di essere autonoma sul fronte dell’energia e delle materie prime. E le risorse e le potenzialità ci sono. Automotive, energia, lavoro, agroindustria, la presidenza Trump negli Stati Uniti e la sua influenza sull’Italia. Grandi temi guardati dalla lente d’ingrandimento di una città del Sud quale Matera che «Panorama on the road», il format itinerante ideato dallo storico settimanale Panorama e fortemente voluto dal direttore, Maurizio Belpietro, ha voluto prendere a modello della capacità di rinascita. «Una Regione la Basilicata, poco conosciuta prima di Matera capitale della Cultura nel 2019 e che quest’anno ha registrato un aumento del turismo del 60%» come ha ricordato il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, primo intervistato da Belpietro nell’evento presso l’Alvino Relais. E proprio per celebrare la capacità imprenditoriale del Mezzogiorno, nella prima tappa a Matera, Belpietro ha voluto ringraziare l’imprenditore Nicola Benedetto che «otto anni fa ha avuto il coraggio di partecipare all’iniziativa editoriale de La Verità da cui è nato un gruppo importante e nel quale Panorama è entrato sei anni fa. Era un’impresa difficile complicata in una situazione in cui nessuno avrebbe scommesso sull’editoria ma Nicola disse che il suo impegno non sarebbe stato di trovare un veicolo ma di partecipare a titolo personale». Il convegno ha visto gli interventi dei ministri del Made in Italy, Adolfo Urso, dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, del presidente della Coldiretti Ettore Prandini, dell’assessore alle politiche agricole della Basilicata Carmine Cicala, del presidente della Confindustria Basilicata, Francesco Somma, di Nicola Lanzetta (head of Italy Enel) e di Paolo Gencarelli, responsabile immobiliare Poste Italiane.
Ma la Basilicata non è solo turismo è anche industria e Stellantis ha un ruolo centrale. Lo stabilimento di Termoli, recentemente travolto dalla crisi del gruppo automotive vive ormai di cassa integrazione. Il ministro Urso intervistato da Belpietro, ha tracciato le problematiche dell’industria dell’auto in Europa e in Italia, strettamente connesse con le scadenze capestro del Green Deal. Urso ha prospettato il rischio che le istituzioni di Bruxelles come furono costrette a fare marcia indietro dalle mobilitazioni degli agricoltori potrebbero «essere costrette a un cambio di marcia degli operai che protestano sotto i palazzi». C’è quindi un tema Europa ovvero le sue politiche green scollegate dalla valutazione degli effetti e sbaglia chi parla di emergenza dazi dagli Usa. Urso è stato chiaro: «Il problema dell’Europa è l’Europa. Non possiamo decidere per gli elettori americani, non possiamo decidere per il governo cinese ma possiamo decidere per un’Europa che ha realizzato un green deal a misura di Cina. Non vorrei che l’industria net zero generasse zero industria invece che un’Europa competitiva».
Il ministro si è detto convinto che ci siano spazi per un confronto con Washington e che nessuno vuole creare una guerra commerciale. Peraltro «anche Biden - ricorda Urso - aveva messo in campo i dazi e con il Buy American aveva fatto da aspirapolvere dei grandi investimenti internazionali. La soluzione è reagire con una politica energetica e commerciale europea che investa nelle imprese e nel mercato interno come stanno facendo gli Usa». E questo vale a cominciare dall’auto. Urso ricorda di aver lanciato l’allarme dell’automotive al collasso in epoca non sospetta e di aver posto il problema a Bruxelles con insistenza». Quanto a Stellantis, «abbiamo varato incentivi per 1 miliardo ma non solo la produzione non è aumentata ma è stata tagliata». Urso ha sollecitato un «piano europeo di risorse per avere la garanzia che nel 2035 le batterie siano prodotte in Europa con materie critiche sotto il nostro controllo altrimenti ci consegniamo alla Cina».
Oltre all’automotive c’è il tema dell’industria siderurgica. Urso ha sottolineato la rinascita del polo siderurgico di Piombino e l’avvio delle procedure per l’assegnazione a nuovi soggetti di Taranto «oltre alla distribuzione dei ristori alle imprese dell’indotto che li aspettavano da dieci anni». L’industria si porta dietro un problema energia e la strada, dice Urso, non può che essere quella del nucleare di 3 generazione, degli small reactor. Sulla stessa linea il ministro Gilberto Pichetto Fratin che in collegamento da Baku, al termine del Cop29, ha rimarcato «l’assurdità delle scelte europee sulla transizione energetica» e si augura che nella nuova commissione prevalgano posizione più equilibrate.
Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha confermato la straordinaria importanza che avrà il ruolo del vicepresidente della Commissione U, Raffaele Fitto per il settore agricolo. E a proposito di posizione ideologizzate e velleitarie, ha indicato l’intenzione della Danimarca di tassare la flatulenza dei bovini. Il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, ha insistito invece sulla reciprocità delle regole sui prodotti dell’agroalimentare, severe per quelli italiani e lasche per quelle di alcuni beni importati.
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Politica
Urso: "Il problema dell'Europa non è Trump. È l'Europa"
L'intervento a Matera con il direttore Maurizio Belpietro e il Ministro delle Imprese e del Made in Italy durante la prima tappa di «Panorama on the road»
23 November 2024
Una discussione per tirare le somme sull'anno che è stato ma, soprattutto, per guardare al futuro e al 2025 che prevede una scadenza importante: quella dell'insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti d'America e ci si domanda che cosa accadrà. È stato questo il centro del dibattito di oggi a Matera tra il direttore di Panorama, Maurizio Belpietro e il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso in occasione del primo appuntamento con il nuovo format "Panorama on the Road" che ha scelto come prima tappa proprio il capoluogo lucano.
"La Trump economy si annuncia con l'introduzione di dazi, cosa significa per l'Italia fare i conti con dei dazi?" È questa la domanda di apertura del dibattito, posta dal direttore di Panorama al ministro Urso. "Innanzitutto la politica dei dazi è una politica che ha perseguito con determinazione anche il presidente Biden, nei confronti principalmente della Cina. È lui che ha innalzato i dazi sulle auto elettriche cinesi al 100% e anche ad altri prodotti soprattutto inerenti alla tecnologia green per proteggere il mercato dei produttori americani che hanno potuto godere di oltre tremila miliardi di dollari di investimenti". "Vedremo" commenta Urso "Noi siamo convinti che il percorso da tenere sia quello di non creare una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Io lo dissi con chiarezza già due anni fa quando nel novembre del 2022 mi presentai in Parlamento per mostrare le nostre linee programmatiche. E in quella sede dissi che, a fronte di quello che il presidente Biden ha già messo in campo sia con investimenti sulle imprese, la politica daziaria e il buy american, l'Europa non avrebbe dovuto reagire perché spaccare l'Occidente in presenza della guerra di invasione russa in Ucraina era da folli". "Con Giorgia Meloni abbiamo continuato a ribadirlo in questi due anni in Europa" continua Urso "È necessario reagire positivamente raccogliendo la sfida degli Stati Uniti alla Cina con una politica industriale europea, con una politica commerciale ed energetica che investisse sulle imprese e sul mercato interno come stanno facendo e faranno ancor più gli Stati Uniti con Trump". "Insomma, il problema dell'Europa non è Trump" conclude Urso "e non è nemmeno la Cina. Il problema dell'Europa è l'Europa".
E a proposito di automotive si passa agli annunci delle chiusure, come quello di Ford. "Ne arrivano continuamente" spiega Urso "Quello a cui siamo di fronte è il collasso dell'auto europea. E dissi già a Cernobbio che di fronte al collasso dell'industria dell'auto che si prefigurava dovevamo subito reagire e intervenire". "Meglio prevenire, dissi" conclude Urso "che intervenire per curare". "La soluzione sono gli incentivi, come chiede Tavares?" incalza Belpietro. "Abbiamo già provato" commenta Urso "Tavares mi chiese di rimuovere l'ostacolo con il regolamento Euro7 e riuscimmo ribaltando la maggioranza in Europa e chiese un forte piano incentivi per il 2024. E Tavares si impegnò a creare una traiettoria positiva di crescita della produzione in Italia fino a raggiungere il milione di veicoli". "Mi sembra però che sia arrivata solo la cassa integrazione..." commenta Belpietro. "Noi abbiamo messo un miliardo sul piano incentivi" replica Urso "ma non è aumentata la produzione anzi, è stata tagliata". "Le aziende poiché non tira il mercato dell'elettrico non possono aumentare la vendita della auto elettriche e quindi hanno solo tre strade" spiega Urso "la prima, chiudere gli stabilimenti e tagliare le produzioni e mandare in cassa integrazione gli operai, la seconda vendere le auto elettriche importate dalla Cina come sta facendo Stellantis certificandole a Mirafiori ("Una follia" commenta Belpietro), la terza è acquistare le quote da chi produce di più ovvero da Tesla. In ogni caso le tre vie per aggirare le norme sulla proporzione da auto prodotte e vendute in Europa sono tre vie che portano ad anticipare il collasso dell'auto europea".
Secondo Urso "piena neutralità tecnologica, imponenti risorse e un piano incentivi europeo stabile e duraturo nel tempo e garantire che nel 2035 le batterie elettriche siano prodotte in Europa" sono una delle necessità per arrivare a un piano green nel 2035 che non porti a una dipendenza dalla Cina.
"Noi vogliamo essere ottimisti e arrivare ad avere un'Europa competitiva in grado di difendere il suo benessere e il suo sviluppo".
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Politica
Lollobrigida: "In Europa tutti sanno che senza l'Italia non si va da nessuna parte"
L'intervento a Matera con il direttore Maurizio Belpietro e il Ministro dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste durante il primo appuntamento con «Panorama on the road»
23 November 2024
Una discussione sul turismo, l'agricoltura, l'energia: vere e proprie sfide per il nostro Paese. È stato questo il centro del dibattito di oggi a Matera tra il direttore di Panorama, Maurizio Belpietro e il Ministro dell'Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste Francesco Lollobrigida in occasione del primo appuntamento con il nuovo format "Panorama on the Road" che ha scelto come prima tappa proprio il capoluogo lucano.
"Vorrei iniziare proprio dagli agricoltori e della sfida contro l'accordo del Mercosur". Così introduce la discussione il direttore di Panorama, "l'argomento è potrebbe penalizzarci con importazioni che ci danneggerebbero. A che punto siamo su questo argomento?" "L'export per l'Italia è uno strumento fondamentale" ha commentato Lollobrigida sottolineando come il governo oggi sia "per un mercato libero, aperto, ma anche regolato e che mette in condizione tutti gli imprenditori di avere pari opportunità ma anche regole che valgono per tutti". "Sul Mercosur in particolare avviene che ci troviamo di fronte a due economie completamente diverse" spiega il Ministro "e avviene che quando ci si trova davanti a costi di produzioni differenti, con un qualcuno che ha costi nettamente più bassi degli altri e allora il Mercosur diventa un problema di gestione complessiva dell'accordo". "Quindi se da una parte è oggettivo che noi ne avremmo dei vantaggi in alcuni settori industriali e quello dei trasformati" prosegue Lollobrigida "è altrettanto oggettivo che i nostri agricoltori ne sarebbero molto indeboliti e questo ci deve indurre a una riflessione e tutta Europa dovrebbe riflettere su questo tema".
E poi Raffaele Fitto e la sua vicepresidenza in Unione Europea. "Si riuscirà a fermare alcune derive che dal mio punto di vista sono molto pericolose per l'agricoltura italiana?" ha chiesto Belpietro a Lollobrigida. "Lei ha puntualizzato un fatto molto rilevante: l'Italia è stata protagonista nella vicenda della composizione della commissione. Abbiamo letto per giorni titoli che raccontavano una verità di parte che poi alla prova dei fatti è stata smentita dando di nuovo all'Italia la considerazione che merita nell'ambito europeo". "In Europa tutti sanno che senza l'Italia non si va da nessuna parte" ha dichiarato il ministro Lollobrigida. "Siamo tornati oggi a ricominciare la produttività uno degli elementi cardine da affiancare alla gestione dell'ambiente. Politiche ambientali sì, ma al contempo tenuta del profilo produttivo". "La nomina di Fitto come primo vice presidente esecutivo italiano della storia è nell'alveo dei sei vicepresidenti che coordineranno alcune attività e Fitto coordinerà l'agricoltura, la pesca, il turismo, la coesione.. tutti elementi indispensabili per realizzare quell'inversione di tendenza che cerchiamo e che riporti all'origine dell'Unione Europea, utile a garantire la prosperità dei popoli". "La garanzia di Fitto è un enorme risultato" conclude Lollobrigida "che cambierà la storia della nostra nazione in positivo ma sono convinto che il ruolo centrale dell'Europa farà tornare credibile l'Europa stessa mettendo i cittadini nella condizione di sperare che l'Europa sia un contenitore utile anziché dannoso per l'economia dei popoli".
La discussione di sposta poi sul piano Mattei e il lavoro sul fare accordi con i Paesi africani. "Non c'è il rischio che poi si contribuisca a una concorrenza con questi Paesi?" chiede Belpietro. "No, Europa e Africa possono crescere insieme" risponde Lollobrigida "La grande intuizione di Mattei era questa. L'Europa vista sul mappamondo ha una dimensione piccolissima rispetto per esempio all'Africa con luoghi che possono essere coltivabili e utili per l'allevamento. E l'Europa può aiutare con le sue tecnologie di formazione e garantire l'autosufficienza dei popoli".
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Il 23 novembre 2024, nella splendida cornice di Matera, si terrà Panorama On The Road.
L’evento, ospitato presso l’Alvino Relais, rappresenta un’occasione di confronto sui principali temi che segneranno il futuro economico, politico e ambientale del nostro Paese. Tra dibattiti di spessore, interviste a figure di primo piano della politica e del settore produttivo, e un’analisi approfondita delle prospettive globali, il programma promette di offrire uno spaccato lucido e visionario sull’Italia che verrà.
L’appuntamento inizia nel pomeriggio, alle ore 15:00, con un tema cruciale: L’orgoglio del Sud per un’Italia più forte. Il Presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, sarà intervistato dal direttore Maurizio Belpietro.
In un’epoca in cui il divario Nord-Sud continua a rappresentare una delle principali sfide nazionali, questa conversazione metterà in evidenza il contributo strategico che le regioni meridionali possono offrire, non solo in termini di risorse naturali ed energetiche, ma anche come hub di innovazione e tradizione. Bardi, forte della sua esperienza di amministratore locale, analizzerà le potenzialità inespresse del Sud e il ruolo fondamentale che può svolgere nel rilancio dell’Italia su scala europea.
Alle 15:30, il dibattito si sposterà su un tema centrale per lo sviluppo sostenibile: L’agricoltura del futuro. Tra innovazione tecnologica e cambiamenti climatici. Tra i relatori figurano il Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, e Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti, due figure chiave per affrontare la complessa intersezione tra tecnologia, sostenibilità e resilienza.
In un contesto globale segnato dall’emergenza climatica, questo dialogo, moderato da Belpietro e dalla giornalista Sabrina Scampini, analizzerà le sfide legate alla transizione ecologica e digitale nel settore agricolo. Si parlerà di soluzioni innovative per garantire la sicurezza alimentare, di politiche di supporto alle imprese agricole e del contributo della filiera agroalimentare italiana alla competitività internazionale.
A partire dalle 16:00, il focus si sposterà su questioni geopolitiche e commerciali con l’appuntamento intitolato Trump 2.0. Come la politica sui dazi del tycoon potrebbe impattare su UE e Made in Italy.
L’intervento del Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, sarà arricchito dal dialogo con Carmine Cicala, assessore della Regione Basilicata, e Francesco Somma, presidente di Confindustria Basilicata. L’obiettivo sarà analizzare le prospettive di un’eventuale presidenza Trump negli Stati Uniti e le possibili ripercussioni sui rapporti commerciali transatlantici, con particolare attenzione al settore agroalimentare e manifatturiero.
La discussione metterà in evidenza i rischi e le opportunità che l’Italia potrebbe incontrare in uno scenario economico globale in continua evoluzione.
La giornata si concluderà alle 17:00 con una riflessione strategica sulle politiche energetiche e sugli investimenti legati al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Gilberto Pichetto Fratin, Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, offrirà il suo punto di vista sulle priorità energetiche dell’Italia, in un dialogo moderato da Maurizio Belpietro.
Successivamente, Paolo Gencarelli, responsabile immobiliare di Poste Italiane, e Nicola Lanzetta, Head of Italy di Enel, approfondiranno le implicazioni pratiche delle politiche energetiche, dalle rinnovabili all’efficienza infrastrutturale. La discussione, condotta da Sabrina Scampini, metterà in luce come gli investimenti previsti possano trasformare le prospettive di crescita economica e garantire una maggiore sostenibilità.
Panorama On The Road è una piattaforma per connettere idee, istituzioni e cittadini in un dibattito partecipativo e concreto. Le tematiche affrontate toccano nodi cruciali della politica nazionale, mantenendo uno sguardo attento anche al ruolo dell’Italia nel contesto europeo e globale.
Dalla valorizzazione delle eccellenze territoriali all’adozione di modelli economici e produttivi sostenibili, Panorama On The Road promette di fornire spunti chiave per chiunque voglia comprendere il futuro del nostro Paese.
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Israele è determinato a regolare i conti con i propri nemici, mentre alla Casa Bianca sta per tornare Trump. Il rischio che la teocrazia iraniana acceleri verso «la Bomba» è alto.
In pieno conto alla rovescia per l’insediamento del nuovo presidente americano, Donald Trump, le cancellerie globali provano a vaticinare le priorità della nuova amministrazione o accelerano l’esecuzione di vecchi piani. Nel caso dell’Iran, che ormai guerreggia con Israele non più solo per delega, ma anche direttamente, la questione è particolarmente delicata.
Da un lato, Teheran negli scorsi anni ha portato avanti con decisione il progetto atomico. Dall’altro, molto è cambiato in tutto il Medio Oriente dopo i massacri del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, e Israele ha scelto di affrontare con grande determinazione i suoi nemici. Tra i cambiamenti più vistosi c’è anche il modo in cui i mullah concepiscono la loro guerra contro Israele. La teocrazia iraniana ora sa che la sua strategia di guerra per delega è fallimentare, che i suoi missili balistici convenzionali mancano di precisione e forza, e che Israele può bombardare qualsiasi obiettivo all’interno dell’Iran, forse con l’eccezione degli impianti di arricchimento dell’uranio del regime clericale, che si trovano in siti sotterranei a grandissima profondità (è il caso del sito di Fordow, sepolto sotto una montagna).
Sta di fatto che, anche nel corso del raid in Iran del mese scorso, Israele non ha attaccato i siti nucleari iraniani. Né ha colpito l’impianto petrolifero sull’isola di Kharg, attraverso il quale passa circa il 90 per cento delle esportazioni di petrolio della Repubblica islamica. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha insomma evitato di affondare il colpo per non scatenare un’escalation, forse anche in seguito di pressioni americane. Ma che gli attacchi aerei israeliani inducano l’Iran a ritardare la corsa al nucleare è una speranza tutta da verificare. Un’eventualità diametralmente opposta è che, di fronte alla fermezza israeliana e al ritorno di Trump alla Casa Bianca, il regime iraniano tenti il tutto per tutto e prema invece il pedale dell’acceleratore. Lo paventano Reuel Marc Gerecht e Ray Takeyh, due grandi esperti di questioni iraniane, che vi hanno dedicato un editoriale del Wall Street Journal. Secondo i due studiosi, il tempo non è più dalla parte di Israele. Per la prima volta, infatti, importanti settori della società iraniana stanno chiedendo pubblicamente allo Stato di costruire armi nucleari.
Il 2 ottobre, Javan, un giornale che è portavoce della Guardia rivoluzionaria, ha sottolineato che, visto l’uso israeliano di «tecnologie militari devastanti per stabilire un nuovo ordine... una delle opzioni immediate è un cambiamento nella dottrina nucleare dell’Iran». Ha aggiunto che «mentre la dottrina nucleare dell’Iran negli ultimi 50 anni (compreso l’era Pahlavi) si è concentrata sull’uso pacifico della tecnologia nucleare, oggi Teheran ha la capacità, il contesto e l’opportunità per una trasformazione immediata di questo programma». Una settimana dopo, 39 parlamentari hanno chiesto al Consiglio supremo della Sicurezza nazionale di cambiare la dottrina difensiva dell’Iran. Un coro di vip iraniani è successivamente emerso a favore dello sviluppo della bomba atomica per contrastare Israele e gli Stati Uniti.
A ciò si aggiunge che sembra essere in atto un’epurazione all’interno degli apparati di sicurezza della Repubblica islamica. Questo, insieme a un’intensificazione della sorveglianza di chi ha accesso al programma nucleare, consentirebbe al regime clericale di sentirsi più sicuro se decidesse che costruire una bomba è una priorità urgente. La paura delle fughe di notizie è infatti una delle ragioni per cui la Guida suprema Ali Khamenei è stata cauta nel completare il progetto che è andato avanti per 30 anni nonostante enormi pressioni esterne. In questa complessa e sempre più instabile equazione va calata la carta Trump, il quale è il principale artefice degli Accordi di Abramo che sancirono una storica normalizzazione nei rapporti tra sauditi e israeliani in chiave anti-Iran, e nel 2020 fece eliminare il generale iraniano Qassem Soleimani, a capo della Forza Quds, una componente del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica. L’imprevedibilità del nuovo presidente potrebbe rallentare le aspirazioni nucleari del regime. Ma la paura potrebbe spingere i mullah a tentare lo scatto verso la bomba.
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A differenza di altre aree strategiche mondiali come Stati Uniti, Cina e India, il Vecchio continente ormai da anni vive un’assenza di leadership. Sia a livello centrale, a Bruxelles, sia nelle singole nazioni. Un quadro desolante, in cui si riconosce un’eccezione...
Con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca si è completato il quadro delle personalità forti alla guida delle grandi nazioni: Vladimir Putin in Russia, Xi Jinping in Cina, Recep Tayyip Erdogan in Turchia, Narendra Modi in India, Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile, solo per restare alle nazioni più grandi e popolose. Autocrati, dittatori o presidenti democratici, ma tutti espressioni dell’Uomo forte, saldamente al potere da svariati anni o tornati alla guida della nazione dopo un’interruzione. Lo scenario mondiale è contrassegnato da leadership robuste e tendenzialmente durature. Invece l’Europa vive da anni ormai una parabola di storica debolezza e di assenza di leadership. Non ha un vero leader che la guidi e la rappresenti, sia che ci si riferisca all’Unione europea e alla sua commissione, sia che si prendano in considerazione i singoli Paesi. I due Stati più influenti, la Germania e la Francia, sono guidate da figure deboli e logorate, sull’orlo della destituzione, con un livello così basso di consensi come non è mai accaduto. E anche altre nazioni europee sono in condizioni di fragilità politica, a partire dalla Spagna. Da una parte Ursula von der Leyen, dall’altra Olaf Scholz, Emmanuel Macron, Pedro Sánchez sono tutt’altro che figure salde alla guida dei loro paesi; esprimono leadership scialbe che non sanno imporsi sullo scenario internazionale.
In questo contesto, il governo più solido tra i Paesi fondatori dell’Europa è proprio quello italiano:Giorgia Meloni sembra saldamente in sella, ha una maggioranza netta e abbastanza coesa che non è frutto di compromessi e accordi provvisori, come succede negli altri Stati europei. Nel resto d’Europa il governo più solido e duraturo, che gode di maggiori e reiterati consensi popolari, è quello ungherese, finora confinato nella black list europea, di Viktor Orbán. Ma il quadro generale è davvero desolante, e rispecchia l’assenza di autorevolezza e di autonomia sullo scenario internazionale, la mancanza di una strategia geopolitica e militare e di una linea propria. Eppure il vento che soffia nel mondo è alla ricerca di leadership salde, in grado di affrontare le turbolenze, i rischi e i contrasti sullo scenario internazionale.
Finora abbiamo considerato la mancanza di un uomo forte come un segno di superiorità della democrazia liberale e parlamentare europea rispetto ai Paesi che hanno bisogno di un regime, di un autocrate, di un «padre». Abbiamo considerato l’Europa come una specie di «Ztl del pianeta», non solo nel senso del centro storico ma anche della zona abitata dall’élite liberale del mondo, la più avanzata sul piano dei diritti. Ma è sempre più evidente la sua irrilevanza sullo scenario mondiale, la sua incapacità di incidere e di influenzare, o anche solo di delineare una sua linea e di tutelare i suoi interessi; si fa trascinare da altri soggetti internazionali (come la Nato o gli Stati Uniti) e non difende né sorveglia i suoi confini, la sua sovranità e la sua civiltà. È inefficace nel fronteggiare le situazioni di crisi: i flussi migratori clandestini, il terrorismo islamico, la concorrenza cinese, i rischi di conflitti alle sue porte. E poi l’Europa sembra quasi vergognarsi della propria civiltà, della sua storia, delle sue tradizioni religiose, del suo passato coloniale. In compenso, dopo decenni di disarmante pacifismo, ha imboccato la pericolosa china del bellicismo e dell’interventismo militare, a rimorchio della strategia Nato-Stati Uniti sul fronte russo.
In Europa si guarda preoccupati all’Uomo forte della Casa Bianca, e si dà una lettura autoritaria e minacciosa del suo avvento alla guida della superpotenza americana. Ma Trump si presenta, al contrario, come l’Uomo forte che vuole frenare le guerre nel mondo e dunque i rischi di una Terza guerra mondiale; vuole arginare la censura alla libertà di pensiero e di opinione in atto negli Usa e non vuole varcare i confini nel nome dell’interventismo americano, pensando al contrario di concentrarsi sul proprio Paese. Trump ha scelto una missione di pace e di libertà, esattamente opposta a quella che viene solitamente attribuita alla personalità autoritaria al potere, pur non essendo un presidente pacifista e liberal ma un realista pragmatico e un patriota neocons. Non si tratta di una pura enunciazione di buone intenzioni perché già nel precedente mandato fu coerente a questa linea: con la sua amministrazione non ci furono guerre con la partecipazione o il patrocinio degli Stati Uniti, non ci fu censura verso chi aveva opinioni diverse da quelle del governo e tantomeno «persecuzione» dell’opposizione interna; e fu limitata l’ingerenza «umanitaria» degli Stati Uniti nel mondo, quella forma di colonizzazione «per il bene dell’umanità» che caratterizza solitamente l’interventismo democratico e progressista. Stavolta Trump pensa di andare oltre, e di mettere fine alla guerra tra Russia e Ucraina; di fermare la censura in atto negli Stati Uniti e di invertire la rotta dell’americanizzazione del pianeta, frenando la globalizzazione con i dazi e l’economia protetta.
L’Europa invece è ancora ferma al film precedente, è mentalmente rimasta all’era Obama-Biden, e non ha mai elaborato una risposta autonoma e sovrana ai grandi equilibri internazionali e alla globalizzazione, limitandosi a seguire il loro solco. Avrebbe bisogno di una leadership forte e lungimirante, capace di esprimere decisioni sovrane e di inserirsi tra i Grandi della Terra con una sua posizione autorevole. Nell’era dell’Uomo forte, l’Europa è l’anello debole.
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Questo combustibile, nella sua versione «verde», promette di accelerare la decarbonizzazione. Eni, Enel e altri big delle rinnovabili stanno sviluppando una serie di progetti grazie anche ai 3,64 miliardi stanziati nel Pnrr. Ma i costi di produzione e impiego restano altissimi.
È la soluzione alla transizione energetica o, come dice il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, «una delle incarnazioni del sogno europeo di salvare il pianeta, al pari dell’elettrico»? Un interrogativo che finora non ha trovato risposta, perché nonostante di idrogeno si parli dagli anni Settanta, quando sembrava il paracadute alla crisi petrolifera, è una fonte combustibile ancora poco usata.
Tanti studi, progetti ma l’applicazione resta marginale e lì dove sono stati tentati gli esperimenti, sono emerse le criticità. Gli obiettivi stringenti di decarbonizzazione imposti da Bruxelles hanno fatto dell’idrogeno un’alternativa ai fossili e una sorta di piano B rispetto alla difficile elettrificazione su larga scala. L’Italia ha stanziato 3,64 miliardi di euro attraverso il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza per accelerare lo sviluppo di questa fonte energetica e l’Associazione italiana idrogeno ha già avviato la realizzazione di più di 50 progetti di «Hydrogen Valley» localizzati sull’intero territorio nazionale. Nello scenario sviluppato da «Hydrogen Roadmap Europe», l’idrogeno verde potrebbe coprire entro il 2050 fino al 24 per cento della domanda finale di energia e creare 5,4 milioni di posti di lavoro, oltre a contribuire al totale riduzione di 560 milioni di tonnellate di CO2.
Tutti i comparti dell’industria stanno studiando le potenzialità di questo carburante. Alcuni progetti sono già operativi, altri in stato avanzato, altri ancora sono stati abbandonati perché troppo costosi e rischiosi. Innanzitutto è bene fare chiarezza sul fatto che non tutto l’idrogeno è uguale. Oggi il suo consumo globale ammonta a circa 75 milioni di tonnellate all’anno, secondo l’ultimo rapporto dell’International energy agency (Iea). Si tratta dell’idrogeno grigio, prodotto principalmente da combustibili fossili, e in particolare dal gas naturale, generando grandi quantità di emissioni inquinanti. L’adozione di sistemi di cattura del carbonio alla fine di questo processo ridurrebbe il suo grado di inquinamento, producendo quello che viene chiamato «idrogeno blu». Ma anche in questo caso c’è un problema di sostenibilità: sia economico, perché i costi di cattura e stoccaggio della CO2 sono ancora proibitivi, sia ambientale, perché il ciclo produttivo non è in grado di catturare tutta l’anidride carbonica prodotta, e comunque lungo l’intera sua catena di produzione il processo emette nell’atmosfera metano, altro gas inquinante. Solo l’idrogeno «verde», che si ottiene tramite l’elettrolisi dell’acqua usando l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, è sostenibile al 100 per cento.
Enel sta sviluppando una serie di progetti per la produzione di idrogeno verde mediante l’installazione di elettrolizzatori alimentati da fonti rinnovabili e ubicati in prossimità dei siti di consumo. Di recente il gruppo, insieme a Eni, ha incontrato a Tunisi la ministra dell’Industria, delle miniere e dell’energia, Fatma Thabet Chiboub, per valutare la possibilità di collaborare allo sviluppo congiunto di un progetto pilota per la produzione di idrogeno rinnovabile in Tunisia, nell’ambito dell’attuazione del Piano Mattei per l’Africa, con l’Italia quale snodo per i bisogni energetici europei. L’idrogeno è visto con interesse dall’industria automobilistica. Bmw e Toyota hanno rinnovato una partnership per sviluppare il progetto di un’auto a idrogeno con lancio dei primi veicoli già nel 2028. Inoltre, le due case si sono impegnate a contribuire nello sviluppo di una rete di rifornimento in tutt’Europa con l’obiettivo è di avere un distributore ogni 200 chilometri circa e nei principali centri urbani per un totale di oltre 600 punti di rifornimento. Stanno lavorando a vetture a idrogeno anche altre aziende come Honda e Hyundai (con la Nexo). I consumatori però rimangono scettici per il problema dei rischi connessi a questo carburante. L’idrogeno liquido che deve essere conservato a temperature sotto -253°C, vicino allo zero assoluto. Ciò comporta una serie di problemi di isolamento termico e di conservazione. Il rischio di incendi è elevato. Hyundai l’anno scorso ha richiamato la Nexo in Europa perché le auto potevano avere un problema al sistema di rilevazione delle perdite di idrogeno ed essere quindi a rischio di incendio.
Questo combustibile è entrato anche nei piani ecologici di alcune amministrazioni comunali. È il caso di Bologna che, usando fondi Pnrr, è pronta a far scendere in strada 127 autobus a idrogeno entro il 2026 - da aumentare a 157 - con l’obiettivo di avere la più grande flotta di mezzi di trasporto pubblico a idrogeno d’Europa. «Sarà una sfida farli andare. Sono costosi e bisogna creare una situazione di sicurezza» chiosa scettico, a Panorama, il presidente di Nomisma Energia, Tabarelli. E aggiunge: «L’automotive sta investendo in questo combustibile sperando di poter centrare l’obiettivo del 2035 dello stop all’endotermico, considerando che la soluzione dell’elettrico si sta rivelando fallimentare. Ma è un’altra illusione». Infine fornisce alcune statistiche illuminanti sulla domanda di auto a idrogeno: «Nel 2022 ne sono state vendute 11, nel 2023 solo due e nel 2024 zero. Chi punta su questo combustibile magari spera nelle flotte aziendali o nei bus cittadini». A conferma delle difficoltà di questo percorso, c’è la recente notizia che il gruppo Thyssen sta pensando di abbandonare la conversione delle sue acciaierie all’idrogeno, a causa degli alti costi. Il passaggio a combustibili ecosostenibili è una sfida soprattutto per il settore aereo considerato altamente inquinante. Ma anche qui non mancano i problemi. Secondo uno studio McKinsey del 2022 «con gli attuali progetti, gli aerei a idrogeno avrebbero un’autonomia limitata fino a 2.500 chilometri» che è la distanza tra Londra e Istanbul.
Destination 2050, l’alleanza europea per l’aviazione civile volta a creare un trasporto aereo a zero emissioni entro la metà del secolo, prevede che gli aerei a idrogeno saranno disponibili entro il 2035, ma solo per rotte intraeuropee a corto raggio. Ciò significa che restano escluse le tratte intercontinentali che, secondo Eurocontrol, sono responsabili di oltre il 50 per cento delle emissioni di CO2 del settore aeronautico. Poi si tratterebbe di riconvertire gli aeroporti, ora strutturati per rifornimenti con combustibili fossili, con costi ingenti. Ma c’è un ultimo risvolto ancora più preoccupante. Ammesso che si riuscisse a rendere gli aerei a zero emissioni, la fatica sarebbe inutile per il pianeta. Studi recenti dimostrano che il 50-75 per cento dell’impatto climatico dell’aviazione è causato da effetti non legati alla CO2 come le emissioni di ossido di azoto o il vapore acqueo che contribuiscono alla formazioni di scie di condensazioni. Queste specie di nuvole lasciate dagli aerei in cielo potrebbero contribuire, secondo uno studio dell’americana Environmental protection agency, al cambiamento climatico. La domanda è: tanto sforzo vale davvero la pena?
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Dà sicurezza, ti fa sentire forte e soprattutto regala un’identità. Così i ragazzi che portano con sé una «lama» spiegano questo fascino. Un modo diverso di stare nel mondo non pare sia previsto.
Fa impressione leggere l’intervista di Luca Villa, Procuratore capo presso il Tribunale per i Minorenni di Milano. Parla della violenza tra i ragazzi che si consuma a Milano ma che, aggiungiamo noi, potrebbe essere analizzata anche in molte altre città. Se, infatti, il numero dei «reati predatori» è stabile (ci riferiamo a quelli denunciati perché, come è noto, molte persone non denunciano più i reati che subiscono), si diffonde la violenza e la minaccia con il coltello. Sembra che l’ultimo e unico alfabeto rimasto sia quello della sopraffazione. Questi ragazzi mostrano rabbia e frustrazione che non riescono a gestire e diventano, appunto, voglia di sopraffazione.
Nelle mie trasmissioni televisive ci siamo occupati molte volte di questo fenomeno del quale parla il dottor Luca Villa. Ho verificato da vicino i numeri che il Procuratore ci dà: «Deve fare riflettere invece l’aumento della violenza, in particolare delle rapine con l’utilizzo di un’arma, quasi sempre un coltello (80 episodi), degli omicidi e dei tentati omicidi che nel giro di tre anni sono passati da 5, a 8, ai 24 dell’ultimo anno… in tanti casi sono ragazzi con genitori integrati, spesso italiani… è difficile persino formulare l’idea di un movente tecnicamente valido dal punto di vista giudiziario… la violenza negli stadi si può ricondurre al tifo che diventa patologia, quella delle gang di latinos si rifaceva a codici che animavano certi contesti. Qui invece restiamo disorientati di fronte alla leggerezza con cui le armi vengono utilizzate, quasi che la vita, agli occhi dei ragazzi, avesse poco valore.
Ritrovo in queste parole quanto ho verificato in alcune inchieste che abbiamo condotto nelle trasmissioni che conduco. Il fatto di portare un coltello addosso è considerato un fatto normale, come una volta si portava il fazzoletto di stoffa al posto dei kleenex. Il coltellino poi è addirittura letteralmente elevato a livello di un mito da queste generazioni. Non è considerato come qualcosa da nascondere perché proibito, semmai, da esibire nei contesti che frequentano come qualcosa che va a definire lo status sociale dei ragazzi. In altri termini è un simbolo che li rende più forti nella loro identità all’interno del gruppo e, ancora prima, li caratterizza come «degni» di frequentare quegli ambienti.
Purtroppo, è un po’ come la pistola in certi ambienti della malavita, là c’è il cosiddetto «ferro», qui di ferro c’è la lama. Ma la questione non cambia dal punto di vista della psicologia che sottostà a questa scelta e che attiene alla psicologia dei gruppi, potremmo dire «delle tribù», che si sentono a loro agio se seguono alcuni riti e alcuni miti.
Ho chiesto frequentemente a questi giovani perché portassero il coltello addosso e mi hanno sempre, invariabilmente, risposto che lo portano perché è uno strumento di difesa necessario per gli ambienti che frequentano. Se vuoi stare tranquillo in quelle situazioni devi portare il coltello, altrimenti rischi. Successivamente ho chiesto perché ritenessero necessario frequentare ambienti dove serve portare un coltello per assicurare la propria incolumità. In questo caso le risposte sono state molto più evasive. In altri termini mi hanno poco convinto perché mi hanno detto che in quei luoghi, comunque, il pericolo c’è e quindi bisogna autotutelarsi. Cioè non mi hanno risposto o, meglio, mi hanno fatto intendere che loro in quegli ambienti vogliono andarci perché a loro piacciono, ma che quei posti che a loro piacciono sono pericolosi (e forse li affascinano proprio per quello) e quindi bisogna portare il coltello, o il mitico coltellino, per difendersi.
Il Procuratore sostiene che sono necessarie alcune attività di prevenzione. «Ridurre la dispersione scolastica, sostenere le attività sportive di squadra perché siano accessibili a tutti e restituire ai ragazzi il gusto di una sana socialità, la grinta di misurarsi in vari contesti non necessariamente “strutturati” dagli adulti, la creatività in ogni sua forma. In una parola, la passione di vivere». La passione di vivere. Il Procuratore usa un’espressione che richiama il senso della vita, che richiama valori e principi che riguardano l’anima di ognuno e anche la sua mente, la sua psiche. Il Procuratore indica una strada che non è veloce, che non è immediata, che non può portare frutto nei giorni o nelle settimane, ma nei mesi e negli anni. Guardando dietro la vita di questi ragazzi viene da chiedersi chi deve fornire tutto questo? E qui prende un po’ lo scoraggiamento.
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