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ANSA/ETTORE FERRARI
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Accordo sul Senato, vincitori e vinti

Dunque alla fine di un estenuante braccio di ferro, i contendenti si sono stretti la mano e hanno trovato un accordo. L'emendamento al disegno di legge Boschi sullariforma del Senato presentato dalla maggioranza prevede in sostanza che i futuri senatori saranno eletti dai consigli regionali che non potranno tuttavia non tenere conto delle scelte compiute dagli elettori al momento del voto (LEGGI QUA: Cosa prevedono gli emendamenti dell'accordo). Una formula astrusa, frutto di un compromesso politico, difficile da comprendere per l'opinione pubblica ma di cui tutti gli ex contendenti in campo sembrano molto soddisfatti.

Le proposte della minoranza dem

Per non compiere uno sgarbo istituzionale nei confronti del presidente di Palazzo Madama Piero Grasso, la minoranza dem presenterà comunque le sue proposte di modifica all'articolo 2 (quello che alla Direzione di lunedì Matteo Renzi aveva definito intoccabile arrivando a minacciare la crisi di governo). La seconda carica dello Stato deve ancora formalizzare la sua decisione sull'ammissibilità o meno di emendamenti in toto o in parte. Ma con l'intesa raggiunta ieri mattina sul doppio passaggio (elettori e consigli regionali) per scegliere i senatori, la soluzione politica auspicata è arrivata e ci sono pochi dubbi su quale sarà la scelta finale di Grasso.



Renzi contro Grasso: i motivi dello scontro

La soddisfazione di Renzi

A questo punto tutti pensano di aver portato a casa una vittoria. Ne è convinto Matteo Renzi. Il suo pugno di ferro contro la minoranza interna gli è valso un balzo nella fiducia personale schizzata al 39%, mai così alta da giugno (era al 32%). La sua maggioranza può rivendicare di aver detto addio al Senato così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi impedendo che la riforma, già votata in doppia lettura, naufragasse e che si dovesse ricominciare tutto da capo. Cosa che non sarebbe mai successa perché piuttosto il premier avrebbe aperto la crisi di governo e rispedito i cittadini alle urne. Ma il segretario ha anche dimostrato ciò che spesso è andato ripetendo negli ultimi giorni e cioè che alla fine i voti in Senato sarebbero stati “qualificati”. Nel senso che la riforma passerà non grazie al soccorso azzurro di Verdini, ma con l'ok di tutto il Pd.

L'elettività dei senatori

Anche la minoranza dem sprizza soddisfazione da tutti i pori. Quella di aver ottenuto l'elettività dei senatori facendo cadere il totem dell'articolo 2. “Se il voto dei cittadini decide chi sono i senatori e poi i consigli regionali ratificano la decisione – ha dichiarato Roberto Speranza - siamo di fronte all'elezione diretta che noi chiediamo”. Peccato che elezione diretta e designazione (il premier non ha parlato di “ratifica” ma di “designazione”) non siano esattamente la stessa cosa e che fino all'altro ieri anche per lo stesso Speranza l'unico punto di caduta accettabile era quello del voto dei cittadini senza ulteriori passaggi.

Il silenzio di Bersani

Mentre così la minoranza ha finito per accontentarsi di un compromesso che la base Pd comprende forse meno della rissa interna durata intere settimane. Uno scontro logorante che ha fatto apparire gli avversari del premier più come dei nostalgici affezionati al vecchio modello del bicameralismo paritario e preoccupati soprattutto di perdere la propria poltrona, che sinceri tutori della Costituzione. Pier Luigi Bersani, che non si è nemmeno presentato in Direzione preferendo un discorso alla Festa dell'Unità di Modena, ha lasciato che i suoi si facessero prendere a schiaffoni dal premier per poi uscire dalla sala prima del voto senza aver detto una parola (escluse quelle molto concilianti pronunciate da Gianni Cuperlo), e che poi ricominciassero a lanciare minacciosi avvertimenti mentre l'accordo era già nell'aria.

Tanto rumore per nulla

Il solito tanto rumore per nulla, insomma. La scelta dei senatori da parte dei cittadini sembrava irrinunciabile. Adesso va bene anche solo la designazione, che non significa elezione. Senza contare il sospetto che alla fine gli oppositori interni abbiano detto sì solo quando hanno capito che, con i voti di Denis Verdini, la riforma sarebbe passata lo stesso e loro sarebbero risultati ininfluenti.

Ma anche il “vincitore” Renzi non può vermanete dire di aver vinto su tutta la linea. Il fatto di non potersi permettere un vero dialogo interno per la paura di fornire così alla sua minoranza l'arma per schiacciarlo, è una prova di debolezza. Il Pd, che si ritrova al governo del Paese, di 17 regioni su 20 e della stragrande maggioranza dei comuni italiani, continua ad essere attraversato da pulsioni scissioniste che nemmeno un accordino su questa o altre riforme riuscirà a placare. Con la minoranza dem che è ormai il principale partito d'opposizione al Pd di Renzi.

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