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May 18 2017
Sarà uno tra Hassan Rouhani ed Ebrahim Rajsi il prossimo presidente dell’Iran. Dei sei candidati in corsa per il primo turno delle elezioni in programma venerdì 19 maggio, in lizza ne sono rimasti quattro. Lunedì 15 maggio il sindaco di Teheran Mohammed Baqer Qalibaf, già battuto da Rouhani alle elezioni del 2013, ha fatto un passo indietro chiedendo ai suoi elettori di votare per il candidato dell’ala ultraconservatrice Ebrahim Rajsi, membro della magistratura religiosa e dell’Assemblea degli Esperti, a capo della potente fondazione caritatevole Astan Qods Razavi, nonché molto vicino all’ayatollah Ali Khamenei. Martedì 16 maggio a ritirarsi nel fronte dei moderati e riformisti è stato invece Eshaq Jahangiri, attuale vice presidente, in passato ministro delle Miniere e Metalli sotto Mohammad Khatami, governatore di Isfahan e parlamentare.
I candidati
Il confronto si restringe dunque a Rouhani e Rajsi, con il riformista Mostafa Hashemi Taba (in passato vice presidente sotto l’ex presidente Ayatollah Akbar Hashemi Rafsanjani e Mohammad Khatami) e il conservatore Mostafa Aqa Mirsalim (già collaboratore di primo piano dell’ex presidente Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, ex ministro della Cultura e della Guida Islamica ed ex custode dell’Ufficio presidenziale) a fare da terzo e quarto incomodo.
I sondaggi
Secondo gli ultimi sondaggi con Rajsi forte adesso del sostegno degli elettori di Baqer Qalibaf, per Rouhani la situazione potrebbe complicarsi molto. Prima del passo indietro, il sindaco di Teheran era dato infatti attorno al 25%, percentuale che sommata al 27% di Rajsi permetterebbe al candidato ultraconservatore di superare di poco la soglia del 50%, motivo per cui potrebbe ambire a vincere direttamente al primo turno evitando il ballottaggio del 26 maggio.
Non tutti i sondaggisti concordano però su questo scenario. Rouhani potrebbe infatti alla fine spuntarla come ha fatto al primo turno delle elezioni del maggio 2013, quando ottenne il 50,7% dei voti. Può contare sul sostegno dell’elettorato del vice presidente Eshaq Jahangiri e già il 19 maggio su di lui potrebbero convergere anche i voti degli elettori del riformista Mostafa Hashemi Taba, preoccupati per la possibile vittoria di un presidente conservatore.
I temi della campagna elettorale
L’essenza del voto presidenziale in Iran è stata sintetizzata da molti giornali internazionali come la scelta tra il fronte dell'"apertura economica" da una parte e quello della "resistenza economica" dall’altra.
Da una parte ci sono i moderati, i pragmatici e i riformisti che puntano sul dare continuità ai risultati ottenuti in questi quattro anni di primo mandato di Rouhani. In primo luogo, l’accordo sul ridimensionamento del programma nucleare iraniano raggiunto dal presidente con i rappresentanti del Gruppo P5+1 (USA, Russia, Cina, Regno Unito, Francia più la Germania) nel luglio 2015 su spinta dell’ex presidente americano Barack Obama, che ha portato al congelamento delle sanzioni a carico dell’Iran, alla riapertura del Paese ai mercati internazionali e al graduale ritorno degli investitori esteri.
Dall’altra ci sono i conservatori, i principalisti (area di centro-destra) e gli ultraconservatori, che non mettono in discussione l’intesa raggiunta sul nucleare (poiché essa gode del favore dell’Ayatollah Ali Khamenei) ma ne criticano i contenuti, in quanto a loro dire l’intesa avrebbe portato alla svendita di un asset strategico della Repubblica Islamica in cambio di nulla come dimostrerebbe il fatto che molte banche e società estere dalla firma dell’accordo sono state riluttanti a operare in Iran viste le pressioni esercitate dagli Stati Uniti nonostante il ritiro delle sanzioni.
È stata dunque l’economia il tema centrale di questa campagna elettorale. Sulla carta, i numeri dovrebbero favorire Rouhani. Quando è stato eletto nel 2013 l’inflazione era a circa il 40%, oggi è scesa al 10%. Inoltre, il PIL cresce in media del 7% all’anno. Rimangono però dei problemi irrisolti, a cominciare dalla disoccupazione: la media è del 12% che arriva al 30% nella fascia giovanile. Ed è su questa importante fetta di elettorato – la classe operaia e le popolazioni delle regioni dell’entroterra – così come su quei milioni di iraniani che continuano a guardare con diffidenza al dialogo con gli Stati Uniti, che Rajisi punta per battere Rouhani. I suoi slogan sono un mix di conservatorismo culturale, nazionalismo e protezionismo economico: autosufficienza piuttosto che dipendenza da partner stranieri, e invito a «non mostrare alcuna debolezza di fronte al nemico» con un esplicito riferimento a Washington.
Per quanto riguarda la politica estera, invece, le questioni a cui l’Occidente guarda con molto interesse – le guerre per procura in Siria e Yemen contro l’Arabia Saudita, le tensioni con Israele, i rapporti con la nuova Amministrazione USA del presidente Donald Trump – non hanno catalizzato particolarmente il dibattito elettorale.
Lo storico delle elezioni iraniane conferma che la vittoria alle presidenziali dipende principalmente da quanto sono convincenti le soluzioni che i candidati propongono per rilanciare l’economia del Paese, diminuire la disoccupazione,dare lavoro ai giovani e garantire una maggiore stabilità sociale. Il resto fa parte delle manovre propagandistiche su cui i fronti contrapposti hanno fatto e continueranno a fare leva nel tentativo di attirare dalla loro parte il voto del maggior numero di elettori.