Food
May 22 2024
Vedere una persona sorridere mentre lavora è sempre un ottimo segno. Se poi la professione in questione si svolge dietro un bancone, tra bottiglie e bicchieri, tra lo sguardo di persone sempre diverse ogni giorno che passa, beh allora la cosa apre il cuore. È la prima cosa che colpisce (prima di assaggiare le sue creazioni) di Federica Geirola, Bar Manager al Singer Palace Hotel di Roma, un palazzo storico degli anni ’30, una volta sede italiana dell’omonima società produttrice di macchine per cucire, ed oggi rinato nelle vesti di un boutique hotel nel cuore della città eterna.
Federica Geirola ha fatto della miscelazione la sua vita. Classe 1989, è la bar manager del Singer Palace Hotel di Roma. Il suo regno è il Rooftop Jim’s Bar, all’ultimo piano dell’edificio. Da qui si gode di una vista meravigliosa, ma anche e soprattutto di una cocktail list che è uno spaccato del mondo della miscelazione, dai classici senza tempo sempre più richiesti e conosciuti dagli stranieri, ai signature che creano àncore emotive, capaci di lasciare un ricordo nella mente dell’ospite.
“Ogni cosa che ci circonda è il risultato di un'equazione che bilancia le nostre emozioni. I cocktail sono un equilibrio, talvolta instabile... come noi” così si apre la sua carta.
Come sta andando l'esperienza romana?
«Sono arrivata a Roma subito dopo la pandemia, quindi tre anni fa. Ho iniziato la mia esperienza alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, in un giardino meraviglioso in cui abbiamo sviluppato un pop up bar firmato Cosmic Bar, in un'atmosfera davvero suggestiva. Non ci si limitava al beverage ma ci occupavamo anche di food pairing. Ho passato lì l'intera estate fino alla chiusura della stagione. Subito dopo mi sono imbattuta nel Singer Palace Hotel, un palazzo a pochi passi dalla Fontana di Trevi. Ho iniziato qui la mia esperienza nell'hotellerie, fino ad allora avevo sempre lavorato in american bar. Mi sono innamorata della terrazza, sarà perché si illumina al tramonto di una luce che rapisce tutti».
Come è cambiato il modo di bere in Italia?
«È cambiato radicalmente da vent'anni a questa parte. Prima si consumavano cocktail semplici, con due o tre ingredienti miscelati. Poi c'è stata l'esplosione della mixology, con la ricerca dei distillati e della materia prima, le lunghe preparazioni e le tecniche sempre più complesse. Il bartender poi ha capito che bisognava rispettare i tempi del cliente e del servizio, quindi essere rapidi e mantenere alta la qualità. Non prendiamo prenotazioni in terrazza, bisogna essere molto abili con i tempi per gestire i clienti dell'hotel e i walk-in, che sono tantissimi. Oggi c’è sicuramente un ritorno ai classici, ma c'è anche un'ampia fetta di persone che si affida completamente al barman. E questo è frutto di una crescente cultura nella clientela, che vuole lasciarsi incuriosire e vivere un’esperienza».
E per quanto riguarda l'abbinamento con il cibo?
«È stato un tema che ho trattato proprio durante il Tedx di Forlimpopoli, a cui ho partecipato a fine 2023. Purtroppo, non c'è ancora una grande fiducia da parte della clientela quando si parla di abbinamenti cibo/drink, e si preferisce ancora il vino. Questo vale solo per l'Italia chiaramente; se guardiamo a New York, fare un cocktail pairing è la normalità da 15 anni».
Ma il food pairing è solo un trend?
«Assolutamente no. Il problema del food pairing è la voce acquisti. Quando fai un pairing devi acquistare molti prodotti, creare un menu ad hoc. Complesso da gestire dal punto di vista economico, soprattutto per le piccole realtà. Se fosse una moda, il suo tempo sarebbe già terminato».
Come nasce un abbinamento con un piatto?
«Mi piace lavorare sia in assonanza che in discordanza, dipende dal piatto e dalla situazione. Se per esempio volessi far conoscere il mondo del pairing ad un cliente, potrei proporgli una frittura di pesce con un Margarita, che va a sgrassare e dà al palato una nota acida grazie al succo di lime, che completa il fritto meglio del vino. Il risultato di solito entusiasma. Un altro esempio è l'Americano, il Negroni o lo Sbagliato con una tagliata di carne. Uscendo dai cocktail classici invece un abbinamento più spinto è il mio Yumi, a base di bitter all'amarena Fabbri, succo di lime, acquafaba e sciroppo all'amarena, che si può abbinare molto bene a una meringa ai frutti rossi, a un tortino al cioccolato, o addirittura a un piatto di formaggi».
Nella realizzazione di un cocktail quanto conta la materia prima e quanto la mano del bartender?
«La qualità del prodotto gioca un ruolo fondamentale, ma la mano del bartender fa la differenza. Se non ci metti del sentimento non esce nulla di buono».
Un tempo c'era chi ti faceva il drink, oggi c'è il bartender. Cosa è cambiato?
«A livello etimologico non c'è differenza tra barista e bartender, è sempre una persona che tiene le redini del bar. In Italia però il barista è colui che maneggia il caffè per lo più, mentre il bartender è colui che miscela ingredienti alcolici o analcolici».
Esiste il concetto di biodiversità nel mondo del beverage?
«La sostenibilità è un tema che tocca chiunque abbia a che fare con cibo o drink. Il recupero dello scarto è importante e a volte è proprio lo scarto che porta il cocktail a un livello più alto. Con la buccia del lime si può fare un cordiale, come anche una guarnizione».
La riproducibilità di un cocktail è qualcosa da perseguire o da evitare?
«Essere copiati è bello. La voce "riproducibilità" parlando di un cocktail o di un piatto è fondamentale per la sua realizzazione. Va a vantaggio delle finanze del locale. Prendiamo l'Aperol Spritz: quattro ingredienti (Aperol, prosecco, soda, ghiaccio), è il drink più facile al mondo ed anche il più venduto, e se questi due fattori stanno nella stessa equazione, non è una casualità, al netto della piacevolezza del cocktail stesso. Se il mio cliente prova a rifare a casa uno dei miei drink, significa che vuole rivivere l’esperienza fatta al Singer Palace. Ho vinto».
Come ha costruito la sua drink list?
«La sezione From Jim’s with Love è una dedica alla storicità del palazzo che ci ospita, e comprende una lista di cocktail signature che richiamano gli anni ’30 già a partire dai nomi. In questa parte della carta mi sono affidata molto ad un approccio basato sulla programmazione neurolinguistica. Se prendiamo ad esempio il Parlami d'amore è un Martini cocktail con un vermouth aromatizzato alla cipollina, spruzzato e diradato nell'aria per mezzo di uno spray e di un ventaglio; le particelle del vermouth cadono ovunque intorno al bicchiere, sul tavolo e restano anche in sospensione nell’aria, così che il cliente sia pervaso dal drink, anche per le ore successive, creando un'àncora olfattiva che costruisce il ricordo. La sezione Neverending drink Story parla dei classici della miscelazione e a completare la lista, una parte dedicata agli analcolici e ad una selezione di spirits e distillati».
Il ghiaccio è un ingrediente?
«Il ghiaccio è una parte fondamentale della guarnizione di un drink, ma non si limita a questo. Con gli anni sono cambiati gli standard del ghiaccio, si guarda anche la limpidezza, la trasparenza, le caratteristiche, la capacità di mantenere una temperatura costante durante la bevuta».
Cosa berremo quest'estate?
«Nel futuro più prossimo vedo il Mezcal e il Tequila che prendono sempre più piede e sicuramente c'è un ritorno ai classici. Bello vedere gli stranieri che chiedono uno Sbagliato, andando oltre al Negroni».
Quanta tecnologia c'è oggi nel mondo del bar?
«Molta. Sono brand ambassador di una società che produce una flavour blaster, ossia una pistola che crea bolle che guarniscono i cocktail, con un effetto sorpresa sempre assicurato. Nei bar c’è tanta attrezzatura scientifica, che si addice forse più a un laboratorio di fisica: gli alambicchi, i distillatori, gli evaporatori rotanti. Sono un po' contraria all'uso sfrenato di certa strumentazione. Se un prodotto esce in un certo modo da una distilleria, così deve rimanere perché è frutto di anni di studi. È come prendere un'opera d'arte e dare delle spennellate a proprio gusto. Ho la sensazione che spesso lo strumento tecnologico serva proprio a quello, a dare una pennellata di ego in più al cocktail».
Come ci si forma per diventare bartender?
«Ci sono tante scuole di bartending con varie discipline, tra cui anche l'approccio acrobatico (flair bartending). Ci sono poi associazioni, tra cui l’AIBES (Associazione Italiana Barman) che apre anche alla possibilità di partecipare a gare di vario livello, fino al mondiale».
Abbiamo sdoganato la convinzione che il mondo del bar sia prettamente maschile?
«Stiamo andando in quella direzione, al momento rimane un mondo ancora molto maschile, soprattutto al sud Italia. Se sei donna hai meno voce in capitolo, a meno che non porti grandi risultati. A Roma ho sempre avuto a che fare con uomini».