News
June 20 2017
Non ha mai parlato con i cronisti che invece si sono occupati abbondantemente di lui, di ogni anfratto della sua vita privata, fino alla rivelazione urlata sulla copertina di un settimanale: Marco Prato è sieropositivo
Per la prima volta il trentenne romano, recluso a Velletri per l'omicidio di Luca Varani, decide di rompere il silenzio, l'unico argomento tabù riguarda le sue condizioni di salute, apprese quando era già dietro le sbarre e spiattellate sulla stampa in spregio alla privacy.
- LEGGI ANCHE: Omicidio Varani: Marco Prato si è ucciso in cella
Il dialogo, in esclusiva con Panorama, è mediato dagli avvocati Pasquale Bartolo e Matteo Policastri.
Il 5 marzo dello scorso anno i carabinieri di Roma entrano nell'appartamento di Manuel Foffo, 29 anni, al Collatino (periferia est della capitale), e scoprono il cadavere di Luca Varani, 23 anni, con un coltello da cucina conficcato nel petto. Quasi cento ferite da punta e taglio, un festino a base di alcol e cocaina degenerato in un'esecuzione sadica e brutale.
Prato si era rifugiato in un albergo e aveva tentato il suicidio.
"Purtroppo ricordo quasi tutto di quella sera" dice a Panorama. "Più di ogni altra cosa ricordo la paura e il senso d'impotenza in una situazione difficilissima. Io non ho ucciso Luca, non sono stato io a colpirlo con il martello e con i coltelli. La verità è che non ho avuto il coraggio di fermare Manuel, ero succube della sua personalità".
Forse anche da questo, dalla speranza di far valere in dibattimento la sua versione dei fatti, nasce la volontà di affrontare il rito ordinario davanti alla Corte d'assise, a differenza di Foffo che, con lo sconto dell'abbreviato, è stato condannato a trent'anni per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà.
"Restituire la verità a una vicenda drammatica" prosegue Prato "vale il rischio di combattere. In ogni caso io non posso essere condannato all'ergastolo. So di non aver impedito la morte di Luca, ma non l'ho ucciso e non l'ho chiamato per ucciderlo".
Una serata di eccessi ha travolto un'esistenza intera. "In realtà gli eccessi di una vita o di una piccola parte di essa mi hanno esposto a qualunque incontro e rischio nella spasmodica ricerca dell'uomo, come Manuel, che suonasse le corde giuste o forse sbagliate. Se potessi tornare indietro cambierei il corso degli eventi, sin dal principio. Cancellerei pure i due bicchieri di vino che ordinai per camuffare una brutta sensazione che m'inseguiva prima di incontrare Manuel. Dovevo ascoltarmi".
Adesso che vive da recluso, il tempo per ascoltarsi non manca. "Quando ero a Regina Coeli tenevo corsi di lingua inglese e francese per detenuti e tentavo di aiutarli con lettere, comunicazioni scritte, istanze... Qui a Velletri non faccio niente, non ci sono attività, il che è drammatico perché, al di là dell'inadeguatezza di bagni e alimentazione, c'è una realtà carceraria ridotta a mera espiazione senza rieducazione. Nessun detenuto è accompagnato in un percorso che gli consenta di tornare a essere cittadino. Una volta usciti, si resta galeotti per sempre. Io trascorro la quasi totalità del tempo a letto, sdraiato sulla mia brandina, continuo a pensare a ciò che è accaduto nel corso di quella terribile notte, ripercorro ogni minuto. Mi manca tutto ciò che è all'esterno, mi manca camminare ascoltando la mia adorata Dalida. Mi mancano davvero tutti".
Quando si è rifugiato nell'hotel di piazza Bologna, dove ha abusato di farmaci, ha vergato un memoriale, una sorta di testamento, chiedendo funerali laici e festosi con le note di Ciao amore, ciao. "È il mio brano preferito. Quel giorno volevo soltanto morire".
Un giovane è stato trucidato per aver accettato il suo invito a un festino sopra le righe. La trasgressione è sorella della morte? "Quel che è accaduto non ha giustificazioni. Tuttavia, se la giustizia è verità, io non posso pagare per un reato che non ho commesso. Io non ho ucciso. Se osservati al microscopio o dietro il buco della serratura, tutti noi abbiamo un lato oscuro più o meno morale, più o meno accettabile, il mio è semplicemente venuto a galla! Sì, mi drogavo, ma non tanto. Sì, facevo sesso, ma come un qualsiasi trentenne. Le richieste estreme, le più bizzarre, provenivano dagli uomini di cui mi circondavo, me le tiravano fuori, ho subìto volontariamente tanta violenza per assecondare maschi eterosessuali di cui ero invaghito e che mi facevano sentire femminile. È evidente che quando particolari così pruriginosi diventano di pubblico dominio sono utili alla coscienza collettiva per puntare il dito piuttosto che guardarsi allo specchio. La pubblica condanna ci appaga perché ci tiene lontano dai nostri mostri, ci fa sentire intimamente più normali. Convinto come sono che la normalità sia un concetto astratto, eliminerei le prime tre lettere dalla parola perversione. Sono tutte versioni differenti di umanità, sfumature distinte di individualità, a volte vissute con sofferenza".
Marco è per tutti il mostro: anche se il processo non è ancora iniziato (la prima udienza è fissata per il 10 aprile), il circo mediatico-giudiziario ha emesso una condanna inappellabile. "A volte si dimentica che dietro un nome c'è una persona reale, in carne e ossa. Pure i condannati meritano rispetto, figuriamoci un imputato come me. Dietro le sbarre ho conosciuto persone che, pur non sottraendosi alle proprie responsabilità, avvertono il bisogno di veder tutelata la propria dignità,i diritti elementari che un paese civile deve sempre assicurare. Non sono un mostro, non ho ucciso, e troverò un giudice disposto ad ascoltarmi".
I genitori di Varani hanno perso l'unico figlio, avevano impiegato dieci anni per averlo in adozione. Lui e Foffo, dicono, non meritano perdono. "Scriverò una lettera ai familiari,è un pensiero che mi accompagna da tempo, ma non ritengo opportuno parlarne ora". A Foffo, al suo amore malato, che cosa vorrebbe dire? "Gli direi: Manuel, abbandona l'odio. Così come mi hai lasciato tranquillamente andare a morire, adesso lasciami vivere e restituisci la verità a quella drammatica notte".