Difendere la grande bellezza
Il crollo di chiese, monasteri e conventi è frutto di incuria dei governi ma anche di eventi più grandi di noi. Ora resta soltanto la ricostruzione
Qualunque città moderna, qualunque periferia, in America e in Europa, può avere una "Nuvola" di Fuksas, ma soltanto l'Italia quei conventi e quei monasteri che oggi rimpiangiamo: la Basilica di San Benedetto a Norcia, l'Abbazia di Sant'Eutizio a Preci. E oggi che li vediamo crollati, abbattuti, feriti, possiamo valutare quanto è idiota, da parte dei tanti governi della nostra recente Repubblica (Res pubblica), averli trascurati o curati male.
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Piangere o pregare oggi appare inutile. Cosa perderebbe l'Italia senza la "Nuvola"? E cosa ha perso l'Italia senza la basilica di San Benedetto a Norcia? La domanda ha già avuto risposta quando, dopo il crollo del campanile di San Marco a Venezia, lo si è ricostruito come era e dove era. O, quando, dopo il bombardamento del ponte di Castevecchio a Verona, lo si è rifatto identico. E così centinaia di casi come La Scala, La Fenice, il Petruzzelli. Di alcuni di questi teatri si è perso il profumo, ma si sono riabilitate le forme. Qualche volta si è fatto lo scempio di una grottesca reinvenzione, come nel teatro Le Muse di Ancona. Ed eccoci oggi a interrogarci ancora sull'eventualità e sull'opportunità delle ricostruzioni. Troppo tardi, se pensiamo a quello che non abbiamo fatto, e che viene evocato nella parola ripetuta in queste ore, ipocrita e bugiarda: prevenzione. Io sono fortemente prevenuto sulla prevenzione. In parte non la vedo, in parte non ci credo. Ho una considerazione suprema dei terremoti e delle eruzioni di vulcani, come manifestazioni della divinità, quale che sia, anche una divinità ctonia, immanente, senza anima né volto. Essa ha una potenza incomparabile, che non si può in nessun modo frenare. E appare crudele. Certo, se si manifesta timidamente e si è costruito un edificio nuovo antisismico, qualche resistenza si può dare. Come un ombrello contro la pioggia. Ma se l'attacco è decisivo non c'è salvezza. Così le alluvioni, gli uragani, gli tsunami. Non solo Paesi poveri e remoti, ma anche l'America ne è stata travolta. Quando la Natura si esprime come potenza divina, l'uomo non ha difese.
Per contrastare lo "sterminator Vesevo", non vi era che costruire Pompei, che non edificare miserabili edifici sulla china del Vesuvio. Come pensare di resistere? Pompei è la prova di una sopravvivenza oltre la morte: una città fantasma, che ci fa conoscere ciò che siamo stati grazie a quell'improvviso sconvolgimento. Senza l'eruzione del vulcano, la civiltà e una città come Pompei sarebbero scomparse, come tante altre, per la consunzione dei secoli che è un'altra espressione dell'eternità di Dio infinito rispetto al tempo breve della nostra vita. Lo ha detto mirabilmente Dante ( Paradiso canto XVI, vv. 73-79): "Se tu riguardi Luni e Orbisaglia/ come sono ite, e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/ che dura molto, e le vite son corte".
Leggere su un giornale: "Il crollo della chiesa cattolica", con riferimento a San Benedetto a Norcia, non vuol dire soltanto il crollo di un edificio, ma la caduta di un simbolo, e così leggere le dichiarazioni del Papa, in sintesi: "Sono vicino alle popolazioni colpite" vuol dire esattamente l'opposto: che Dio è lontano. Che lui e i suoi patroni non possono nulla. E che appare persino ridicolo inginocchiarsi e pregare davanti alle chieste distrutte, davanti a San Benedetto abbattuto, pregare un patrono che non è riuscito neppure a salvare la sua chiesa. Dio è lontano. O forse Dio non c'è, se non dentro di noi.
Il viceministro israeliano Ayooub Kara ha detto, con lo sdegno di tutti, che "il terremoto è la punizione divina per l'astensione dell'Italia al voto Unesco sui luoghi santi di Gerusalemme". È un'interpretazione dello stesso tono delle parole del protagonista di un libro ammirato da tutti: Yossl Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz. Esiste, dunque, un Dio crudele. Un Dio che punisce. Ma solo per chi crede. L'unica consolazione è non credere. Alla violenza di Dio l'uomo è impari. Ed è incredulo davanti a un Dio che non perdona. La Chiesa lo evoca nella sua crudeltà, quando insiste nel chiedere all'uomo di pentirsi, di chiedere perdono a Dio. E perché? Per quali peccati? L'uomo ha colpa di essere nato? Lo ha forse scelto? Lo ha chiesto? E allora perché deve chiedere perdono? Ma se Dio, misericordioso, non fa nulla per risparmiare tragedie all'uomo, inerme e indifeso, cosa deve pensare l'uomo? Che Dio vuole punirlo.
Le suore che escono dal convento sono costrette ad andarsene dal rifugio della loro coscienza, improvvisamente inadeguato. Hanno perduto la loro protezione, non la loro speranza, non la loro fede. Ed è come trovarsi nude. La loro insensata risposta è la preghiera davanti al santuario abbattuto del patrono.Una tragica risposta è invece il ghigno dello scrittore Massimiliano Parente che su Facebook sfida Dio, nella sulla nullità, nella sua inesistenza, nei suoi templi del nulla: "Il crollo delle chiese, però, è divertente". Nessuna ipocrisia, nessuna reazione automatica, come nella banalità confusa di chi rimpiange il nostro patrimonio perduto, con le frasi di tutti, con le parole di circostanza, con le considerazioni inevitabili. A Parente non importa nulla delle opere d'arte. Non soffre per la scomparsa di un'architettura o di un affresco. Non gliene frega niente. Ed è lecito. Perché la sua vita è più corta di quella di una tavola di Giotto o di una scultura di Donatello.
Il crollo delle chiese è ineluttabile. Ed è giustificabile solo se Dio non esiste, dal momento che, se esiste, non ha fatto nulla per salvare il suo patrimonio materiale e simbolico. La chiesa che crolla è una minaccia alle nostre certezze. Dopo il terremoto resta, in verità, una sola certezza: la ricostruzione. Che, ancora una volta, è opera dell'uomo. Come la costruzione delle chiese in onore di Dio. Ricordo, qualche mese fa, la soddisfazione del sindaco di Norcia, che era convinto che la resistenza della sua città rispetto alla distruzione di Amatrice dipendesse dalle misure di prevenzione di un modello virtuoso di ricostruzione, dopo il terremoto del 1997. E invece era solo il caso. Che, dopo due mesi, ha cambiato verso. La "pars destruens" non dipende da noi. Ciò che accade ci fa subire i limiti di chi ci ha preceduto, più artisti che ingegneri. Da noi dipende la "pars costruens": come restaureremo, come ricostruiremo, secondo la volontà e il contributo del governo. Una impresa di Stato, non di Dio. Per la prevenzione è sempre troppo tardi.