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Perché Hamas ora riconosce la Palestina del 1967

L’organizzazione terroristica palestinese si dice pronta al passo, ma non lo fa con Israele. È solo un tentativo di recuperare consensi perduti

Il 2017 vorrebbe essere per Hamas l’anno della verità. Ma difficilmente lo sarà. Prima, a metà gennaio, l’organizzazione palestinese che controlla la Striscia di Gaza ha stretto a Mosca un accordo di principio per la costituzione di un governo di unità nazionale con gli esponenti di Al Fatah, l’alter ego che invece controlla la Cisgiordania, e ha annunciato nuove elezioni.

Poi, il 13 febbraio scorso, ha nominato quale nuovo leader politico Yehiya Sinwar, personaggio di primo piano della resistenza palestinese, considerato un falco estremista dagli stessi militanti di Hamas (arrestato dagli israeliani nel 1988 e condannato a quattro ergastoli, fu liberato nel 2011 insieme ad altri mille detenuti palestinesi, in cambio del rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit, rapito cinque anni prima nei pressi di Gaza).


Adesso, l’organizzazione ha approvato una modifica del suo programma politico che, in sostanza, accetta la creazione di uno Stato palestinese secondo i confini del 1967, ovvero quelli ottenuti de facto con l’armistizio seguito alla Guerra dei Sei Giorni. Quando cioè Israele, uscito vittorioso dallo scontro con una coalizione araba, ampliò il proprio spazio vitale rispetto al territorio mandatario del 1948 - che aveva dato vita allo stato israeliano - occupando l’attuale Cisgiordania, Gerusalemme Est, Gaza, il Golan e il Sinai (che sarà restituito anni dopo all’Egitto).

L’armistizio del 1967 è stato la base di una serie innumerevole di colloqui e trattative, ultima delle quali è stata la proposta di Barack Obama di un ritorno a quei confini, con "comparabili e reciproci scambi di terra concordati" tra Israele e Palestina. Come sappiamo, non vi è stato alcun seguito e la nuova amministrazione Trump ha, al contrario, ventilato l’ipotesi di spostare a Gerusalemme la sede dell'ambasciata americana rafforzando così il riconoscimento della capitale dello stato ebraico e suscitando il panico tra le fila palestinesi.

La mossa di Hamas
L’odierna - e inedita - decisione di Hamas, tuttavia, è ambigua e certamente non risolutiva. Da un lato, infatti, corrisponde a un evidente tentativo di rompere il crescente isolamento internazionale, offrendo un’immagine di sé all’esterno più “soft”. Dall’altro, è una manovra per rimettere l’organizzazione di nuovo al centro della politica e accreditarsi quale unico interlocutore possibile a Gaza, soprattutto dopo che gruppi salafiti-jihadisti alternativi stanno acquisendo sempre più potere all’interno della Striscia, minando l’autorità stessa di Hamas.

Lo sforzo dell’organizzazione - considerata terrorista oltre che da Israele, anche da Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e da altre potenze - di rifarsi un’immagine positiva e ammorbidire le proprie posizioni, è evidente soprattutto nei toni: "Il nostro messaggio al mondo è che Hamas non è radicale. Siamo un movimento pragmatico e civilizzato. Noi non odiamo gli ebrei. Lottiamo soltanto contro chi occupa le nostre terre e uccide la nostra gente" afferma il documento. Nel testo, peraltro, non si fa più menzione dei Fratelli Musulmani, in ossequio a Egitto e Stati del Golfo, dove il movimento islamista è bandito.  

Tuttavia, che questo documento rappresenti solo un restyling d’immagine, si capisce da alcuni dettagli. Intanto, è stato diffuso da Doha, Qatar, per mano dell’ormai screditato leader supremo Khaled Meshal, che da anni vive in esilio e sul quale gravano pesanti sospetti di corruzione. Ma, soprattutto, arriva proprio nel giorno in cui in Israele si sono aperte le celebrazioni per il 69esimo anniversario della nascita dello Stato. Una provocazione, dunque, che la controparte ovviamente non ha gradito.

Il ruolo di Israele
Infatti, il vero punto dirimente e base di partenza per qualsivoglia trattativa, è il riconoscimento dello Stato d’Israele. E questo non c’è nel documento. Anzi, si ribadisce il rifiuto categorico a dar vita a tale possibilità: "Senza compromettere il suo rifiuto dell’entità sionista - si legge nel testo - Hamas considera l’istituzione di uno Stato palestinese totalmente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale lungo la linea del 4 giugno 1967, con il ritorno dei rifugiati e degli sfollati nelle loro case da cui sono stati espulsi, come una formula di consenso nazionale".

Una battuta celebre vuole che il motivo del conflitto israelo-palestinese sia “troppa storia e poca geografia”. Ed è davvero così. Non si tratta più di rimestare nei fraintendimenti storici (nel 1948 la Palestina non esisteva come stato e la Cisgiordania era, appunto, Giordania), ma di dare seguito alle rivendicazioni territoriali. Nel documento di Doha, infatti, Hamas non rinuncia alla lotta per "liberare tutta la Palestina" e quasi chiama alle armi per boicottare il "progetto sionista".

Pronta la replica israeliana, che ha rigettato la dichiarazione di Hamas etichettandola come "fumo negli occhi", e sottolineato come l’obiettivo dell’organizzazione resti la distruzione di Israele. Dunque, per ogni passo in avanti nella questione israelo-palestinese, se ne fanno due indietro.

Hamas e i problemi in casa
In fin dei conti la mossa di Hamas, per quanto sembri orientata alla politica internazionale, appare allora più come una questione di politica interna, dove è evidente la necessità da parte dell’organizzazione che dal 2006 controlla la Striscia, di conciliare la guida di un governo legittimo a Gaza con l’esigenza di essere ancora percepito dai palestinesi come il movimento di resistenza contro Israele esclusivo.

Da mesi, infatti, soprattutto Gaza city è attraversata da spinte centrifughe, specie tra la popolazione più giovane, che guarda con curiosità crescente alla capacità di manovra di gruppi salafiti-jihadisti come lo Stato Islamico, potenzialmente in grado di erodere consensi e già molto attivi, specie al confine col Sinai, nel portare avanti la lotta come e più di Hamas.

Dall’altro, la Striscia è percorsa da proteste e contestazioni continue, come quella di gennaio scorso quando migliaia di persone, stanche della fornitura di elettricità a singhiozzo, sono scese in strada per chiedere ad Hamas una soluzione, accusando direttamente l’organizzazione di non saper porre rimedio a questi disagi.
 
Infine, Hamas deve ancora affrontare coerentemente il vero nodo interno, che resta il rapporto con Al Fatah. Il processo di riconciliazione fra i due schieramenti - tassello fondamentale per sbloccare la situazione interna della Palestina e presentare un fronte compatto alle trattative con Israele - nonostante gli annunci, sinora non ha prodotto alcun governo di unità nazionale né proposte credibili.

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Luciano Tirinnanzi