Turchia: dopo il colpo di Stato, la guerra civile
Si rafforza il regime di terrore di Erdogan che passa per una forte repressione ed epurazione. Che l'Europa e la Nato, in difficoltà, non potranno fermare
Soldati contro il muro in canottiera e con i polsi legati, assalto ai pullman che portano i golpisti denudati delle uniformi e rintanati sotto i sedili, blitz a ripetizione per arrestare non 10 o 100 presunti aderenti al putsch militare, ma migliaia e migliaia. E non solo tra i ranghi delle forze armate, ma nella magistratura e nella polizia (che pure si era opposta all’insurrezione).
Un tweet con una foto dei soldati arrestati dalla polizia turca@Twitter
Chi è contro Erdogan deve guardarsi bene, oggi, dall’esprimere le proprie idee, perché rischia non più semplicemente l’ostracismo, il licenziamento o il carcere, ma la pena di morte che presto potrebbe essere reintrodotta.
C’è poco da stupirsi, in realtà, per l’ondata di violenze in Turchia e per rivalse e rese dei conti che seguono sempre un colpo di Stato fallito.
Specialmente in un paese che nella sua storia ha visto ben altri episodi di crudeltà. Ecco i numeri semi-ufficiali del day after: 312 morti come diretta conseguenza della notte di furore (104 militari “golpisti”, 145 civili, 60 poliziotti e 3 soldati), più 1491 feriti. E poi: arrestati 7.850 poliziotti, 6mila militari, 3mila giudici e procuratori, 30 prefetti su 81 e più di 50 alti funzionari civili.
Se si aggiunge che le purghe di Erdogan avevano già decimato per fini di bonifica politica intere categorie (giornalisti e, ancora, militari e magistrati), è evidente che oggi in Turchia vige un regime di terrore. È però anche vero che nel momento in cui i militari sono usciti dalle caserme per occupare e presidiare strade e palazzi del potere, sono stati accolti da fischi e opposizione da parte degli stessi cittadini, fallendo per la prima volta nella storia turca lo scopo di rovesciare un governo legittimato da libere elezioni.
Abbiamo quindi da un lato un regime democratico che usa il pugno di ferro della repressione contro qualsiasi forma di dissenso (le liste degli epurandi erano chiaramente pronte già prima del tentato golpe e lo scontro dell’altra notte non ha fatto altro che innescare un’epurazione lungamente progettata), dall’altro una casta di militari che per quanto mossa, forse, dall’obiettivo di restaurare la laicità della Turchia moderna fondata nel 1923, non ha il consenso popolare e ancora una volta ricorre a metodi violenti e insurrezionali.
È duro dirlo e riconoscerlo, ma in qualche modo era inevitabile che Erdogan rispondesse ai tentativi di rovesciarlo con un giro di vite repressivo preludio al ritorno alla pena di morte.
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Stiamo parlando di un grande e complesso paese che richiede un polso fortissimo per essere tenuto insieme. Stiamo parlando di un paese, la Turchia, invaso da milioni di profughi e confinante con paesi in guerra, in particolare con il Califfato (verso il quale il regime di Ankara in passato ha dimostrato qualche grave ambiguità). Stiamo parlando di un popolo che subisce il fascino perverso di una deriva islamista che trova espressione in Erdogan (arrivato al potere nel 2002 dopo aver saggiato i rigori del carcere proprio per il suo progetto di restaurazione islamica delle leggi e dei costumi, se non della politica estera).
Eppure, questo paese appartiene alla Nato e ne costituisce un perno strategicamente fondamentale nella sua proiezione verso est e verso sud. Eppure, questo paese ambisce da decenni a essere riconosciuto come membro dell’Unione europea, dove ora sembra più difficile che possa entrare non foss’altro per l’aggravarsi delle violenze e della repressione. Un paese la cui città più importante, Istanbul, si estende tra due continenti attraverso lo storico ponte sul Bosforo.
La stabilità è per l’Occidente il valore oggi più ricercato. E la stabilità della Turchia passa attraverso gradi progressivi di violenza per le strade, nelle carceri, perfino nelle redazioni dei giornali. Che cosa sia meglio o peggio per la Turchia possono deciderlo, o almeno saperlo, solo i turchi. Quello che è certo, è che non esiste una soluzione facile e che per l’Europa le alternative sono tutte a perdere. Non si fa la politica internazionale con i buoni sentimenti.
Scandalizzarsi per le purghe e le vendette è facile ma non porta a nulla. Il bubbone turco è tutto lì e non avrà esiti pacifici. C’è una guerra civile in atto. La repressione, così come la rivolta, chiedono sangue. All’Europa non resta che stare a guardare.