Ritratto di Ridley Scott: l'apoteosi del cinema mutante
Da "I duellanti" ad “Alien: Covenant": generi, sperimentazioni, fughe visionarie e opere monumentali tra la cura ossessiva dell'immagine e il suo rinnovamento
Ridley Scott compie ottant’anni. Però è uno dei quei cineasti incapaci di invecchiare, verso i quali il tempo sembra davvero impotente. E meno rapace del solito. Non è il solo. Segue la strada di altri come lui che hanno consumato la loro creatività esplosiva con l’energia fisica e mentale dei trentenni. Per esempio Sidney Lumet che di anni ne aveva 83 quando diresse Onora il padre e la madre squadernando un trattato di cronologia narrativa; Robert Altman anche lui ottantenne a orchestrare Radio America dopo The Company e Gosford Park; Martin Scorsese meno maturo di loro ma ancora con la voglia di girare film come Silence o The Wolf of Wall Street e correre dietro ai Rolling Stones. E via così.
Ci si ritrova allora a parlare di un autore che attraverso il suo fare cinema ha rinnovato tutto il rinnovabile, in un percorso disseminato di generi, sperimentazioni, fughe visionarie e opere monumentali. Un genio. Che s’è manifestato tale fin dalla prima folgorazione sulla via di Cannes, giusto quarant’anni fa, quando Harvey Keitel e Keith Carradine ipnotizzarono il Festival – me compreso, che ebbi la fortuna di assistervi - con la vertiginosa contesa de I duellanti. Da allora, ventiquattro film, incluso l'ultimo Alien: Covenant.
Agli antipodi della “Discovery One”
Già, Alien. Il mito. Il mostro nero dalla testa oblunga, le zanne d’acciaio, gocciolante di bave vischiose, goloso di carni umane, sanguinario, implacabile. Lo xenomorfo parassita capace di riprodursi con energia propulsiva imbevendosi della linfa vitale degli astronauti su quella Nostromo che ha riscritto la storia ambientale della navi spaziali: cancellando il candore asettico della Discovery One di Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio per sostituirlo con il suo opposto, antagonistico sistema di tubazioni rugginose, scuri agglomerati di macchine e strutture oleose e cigolanti come quelle d’una vecchia petroliera cosmica. Con in più, l’icona Sigourney Weaver al massimo del suo splendore.
Il futuro immaginato al passato
Sostanze barocche, infette e fumiganti. Antico e moderno intrecciati. Il concetto di remoto applicato al passato e al futuro in orbita visionaria. Ancora, il futuro immaginato dal passato. La filosofia dell’estrema suggestione di Scott apre le ali scure su Blade Runner nel 1982, tre anni dopo Alien, nella distopia e nel futuro rétro o pulp-retrofuturista di una Los Angeles popolata di replicanti, mutuata dalla lontana Metropolis di Fritz Lang e divenuta Retropolis, attraversata da macchine sfreccianti-volanti, immersa nei vapori di sbuffanti disumane caldaie e trasudanti friggitorie cinesi.
È la fantascienza che cambia pelle, padre e padrone nell’estetica cinematografica capace di rivoluzionare i confini e farsi arte, architettura, design, grafica. Con un occhio a Norman Bel Geddes, uno a Richard Buckminster Fuller, uno a Jules Verne, un altro ancora a Syd Mead.
La fantascienza scelta privilegiata
E si va. In una sfera allucinata che sceglie la Sci-Fi quale via privilegiata e genere par excellence - fino alla sublimazione della sopravvivenza cosmica di The Martian e al tormentoso ulcerato Prometheus quale presupposto di Alien - cui attribuire i termini più vitali e influenti delle proprie ragioni cinematografiche.
Senza omettere, peraltro, incursioni frequenti ed eloquenti su altri versanti dell’espressione, spesso diventando referente di tendenze “ideologicamente” associabili ad un metodo, un’estetica, uno stile narrativo, un punto di vista. O una tematica. Come quella femminista, par example, della quale a torto o a ragione un’opera come Thelma & Louise (1991) diventa vessillo nel post-movimento lungo l’arco degli anni Novanta.
Già, i generi. All’interno dei quali questo maestro inglese di South Shields si muove ad ogni passaggio con velocità spiazzante, sbalordendo o sconcertando: senza mai corrompere e degradare, però, quel metamorfico sistema di alterazione che ne accompagna non solo i singoli film ma l’intero impianto cinematografico fondato ed edificato, appunto, sulla trasformazione. È la manifestazione estrema, è l’apogeo del Cinema Mutante. In una coincidenza perfetta tra sistema creativo e sostanze narrative.
L'esteta sempre in agguato
La Storia e la commedia, la guerra e il peplum, il mistery e il gangster movie, l’azione e l’avventura. L’esteta è in agguato, magnificamente, ovunque. Qualche impronta? Il Gladiatore riscrive nel 2000 la sintassi dell’epica imperiale e spedisce Russell Crowe tra le stelle diventando fenomeno di meta-boxoffice; Black Hawk Down galleggia nel 2001 tra realismo quasi documentaristico, sospensioni oniriche e accordi prospettici di videogame sulla missione americana in Somalia di otto anni prima chiamata Gothic Serpent; Un’ottima annata (2006) trapassa i confini della commedia d’astrazione esistenziale e reincarnante in quella solarità meridiana che, per contrasto, ha la stessa funzione della tenebra piovigginosa e trasudante spalmata sui contesti dark degli altri film.
Nella stagione successiva l’altro passaggio deviante è American Gangster che prolifera sulle ceneri degli stereotipi di genere traendone il fiore e l’optimum, restituendo dignità e grandezza – meglio dire enormità – ai codici e agli sviluppi del racconto, riscritti ma al tempo stesso esaltati nella loro classicità. E Russell Crowe è ancora una volta il medium di tutto.
Lo spettacolo e i suoi contenuti
Autore (e produttore) a 360 gradi. Ultrà della perfezione e manipolatore dell’immaginario, ricercatore della “verità” nelle immagini passando attraverso il loro studio ossessivo e contaminante. Coniugando sempre lo spettacolo ai contenuti, la caccia teorica e sperimentale al gusto classico dell’armonia e delle proporzioni, i temi universali alle angustie più personali e segrete.
A volte con una tempestività storico-profetica come quando, nel 2005 con Le Crociate – Kingdom of Heaven, intreccia le violente contraddizioni dei dogmi religiosi con l’attualità strategica americana delle guerra in Iraq. Altre volte nei modi dolenti e quasi elegiaci quando dedica The Counselor – Il procuratore (2013) e Exodus – Dei e re (2014) a suo fratello Tony, sette anni meno di lui, morto suicida a Los Angeles nel 2012.