Se la democrazia porta alla dittatura: il caso Turchia
Il risultato del referendum turco non certifica tanto la malattia della democrazia, ma il fatto che essa dipende sempre da chi la esprime
Il New York Times, forse suggestionato dal fatto di ritrovarsi in casa l’inviso presidente Donald Trump, scrive parole molto dure a proposito della Turchia, dove la vittoria del “sì” al referendum di domenica 16 aprile ha dato poteri pressoché illimitati al presidente Recep Tayyip Erdogan.
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Secondo il quotidiano americano, siamo di fronte all’ultimo di una serie di esempi all’interno dei sistemi democratici dove, in seguito all’investitura popolare, i leader agiscono da quel momento in avanti per consolidare il proprio potere attraverso l’eliminazione progressiva di quegli impedimenti legali e contrappesi al potere esecutivo che la legge prevede per qualsiasi regime di democrazia.
Il cambiamento
Questo fenomeno è chiamato dagli esperti “authoritarianization”, espressione infelice e mal traducibile in italiano, ma che rende bene l’idea di come in quest’ottica la forma autoritaria tenda a prendere il posto della struttura democratica, una volta superato lo scoglio delle urne. Ragion per cui, una volta al potere, un leader senza scrupoli è in grado di manipolare l’ambiente politico a proprio vantaggio, blindando non solo il proprio mandato ma assicurandosi di rendere più probabile la vittoria nelle future competizioni elettorali.
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La causa di tutto ciò sarebbe rintracciabile nella vulnerabilità insita nella struttura stessa della democrazia, che consentirebbe troppo facilmente ai tiranni in nuce di modificare le regole del gioco, una volta ottenuta la patente di “fautore della democrazia” proprio grazie al voto popolare. Come a dire che la democrazia è anticamera della dittatura.
Il ragionamento non è così lontano dal vero e certo non mancano esempi contemporanei di leader che hanno blindato il potere seguendo queste regole: Vladimir Putin in Russia, Hugo Chávez e il suo epigono Nicolas Maduro in Venezuela e, appunto, Recep Tayyip Erdogan in Turchia.
Cosa cambia in Turchia
Il referendum che ha reso quest’ultimo autocrate un leader assoluto del paese del quale è alla guida dal 2003, ha istituito un sistema presidenziale che concentra il potere esecutivo nelle mani del presidente, abolendo la figura del primo ministro.
Il capo dello Stato, infatti, d’ora in avanti sarà eletto direttamente per due mandati da cinque anni (più un terzo in caso di scioglimento anticipato della seconda legislatura), potrà nominare e revocare ministri e alti funzionari dello Stato, giudici, diplomatici e rettori universitari e non sarà più obbligato a mantenere la neutralità rispetto al proprio partito.
Quanto al parlamento, questo non voterà più la fiducia all’esecutivo né avrà potere di allentare o cancellare lo stato di emergenza. Ciò significa che, in teoria, Erdogan potrebbe restare al potere per un altro quindicennio. Tutto regolare? Forse no, ma di certo è pienamente legale.
Perchè è importante
In ogni caso, il punto su cui vale la pena riflettere è altro rispetto alla legittimità di tale operazione. Queste forme di autocrazia sono espressione del despota che piega la volontà del popolo o piuttosto sono espressione del popolo che elegge democraticamente un autocrate?
Inutile ricordare che anche Adolf Hitler salì al potere con un plebiscito popolare. Più utile sottolineare il fatto che gli uomini al potere sono sempre espressione delle società del proprio tempo, dalle quali discendono tanto le dittature di ieri quanto il populismo di oggi (anche se Erdogan si è fermato al 51% nel referendum).
Perchè la Turchia non deve stupire
Il NYT cita in proposito il lavoro svolto dallo scienziato politico Milan Svolik per la Yale University. Secondo Svolik, nelle società fortemente polarizzate - come la Turchia odierna - gli elettori "sono anzitutto partigiani, e solo dopo democratici". Il ragionamento è molto semplice: "se io sono un grande fan del mio uomo politico e odio il politico che rappresenta l'altra parte, sarò disposto a perdonare il comportamento non democratico della mia parte, anche se apprezzo la democrazia". Il popolo è sovrano, nonostante tutto.
Dunque, nessuno stupore che una nazione scoraggiata dai venti di guerra ai confini, spaventata da un tentato colpo di stato, minata dal terrorismo e divisa tra laicismo e Islam, sia stata irretita da un uomo forte che promette stabilità e sicurezza e che è riuscito a garantire la crescita economica. Uno che, almeno in teoria, fa tutto questo per conservare e preservare la Turchia dal caos.
Il risultato del referendum era prevedibile, se non scontato. E significativo è stato anche il fatto che i voti dall’estero abbiano pesato sul giudizio finale, con percentuali più alte rispetto ai dati nazionali. Questo perché le società - e ancor più i loro “figli” emigrati - spesso sono più conservatrici, proprio quando credono di esserlo meno. Valga su tutti l’esempio della rivoluzione francese, cui è seguito subito dopo l’impero napoleonico.
Dunque, anche nel caso della Turchia non siamo di fronte a niente di nuovo. Si può scomodare in proposito la filosofa Hannah Arendt, secondo cui "anche il rivoluzionario più radicale diventerà un conservatore il giorno dopo la rivoluzione". Ma si possono anche prendere in prestito le parole di Lev Tolstoj, quando scriveva con sguardo originale "si pensa comunemente che di solito i conservatori siano i vecchi, e che gli innovatori siano i giovani. Ciò non è del tutto vero. Il più delle volte, conservatori sono i giovani. I giovani, che han voglia di vivere ma che non pensano e non hanno il tempo di pensare a come si debba vivere, e che perciò si scelgono come modello quel genere di vita che v’era prima di loro".
Dove va la democrazia
In definitiva, dunque, per capire dove stia andando la democrazia oggi non basta osservarne i leader e biasimarne le relative mosse “liberticide”, più opportuno è guardare alle società di cui queste figure sono figlie, perché è al loro interno che proliferano e vengono accordate simili evoluzioni (o involuzioni).
Questo perché "ogni popolo ha i governanti che si merita". Lo pensava Aristotele oltre duemila anni fa e lo hanno riaffermato in molti nei secoli a noi più vicini. Come smentire questa frase, guardando a Donald Trump o a Recep Tayyip Erdogan? Chissà cosa commenteremmo, poi, se dovesse vincere Le Pen nella Francia cuore dell’illuminismo e della "liberté".
In ogni caso, è su tutti noi che ricade il peso di tali scelte. Come è accaduto allo sfortunato - e, secondo alcuni, irresponsabile - giornalista italiano Gabriele Del Grande, fermato in Turchia durante un controllo al confine con la Siria e trattenuto da oltre dieci giorni in un centro di detenzione senza possibilità di comunicare all’esterno e nonostante non gli sia stato contestato alcun reato. Che a Erdogan non piacciano i giornalisti è arcinoto, per usare un eufemismo. Ma cosa dovrebbero fare i futuri Del Grande? Arrendersi all’evidenza?