Stato-Mafia, così la sentenza Mannino seppellisce il teorema della trattativa
Il legale di Mori: "Ora serve un'indagine sugli enormi costi giudiziari a carico della collettività"
"Questa sentenza è una ulteriore pietra tombale sul teorema della trattativa. Già nel 2013 i giudici della quarta sezione del tribunale di Palermo, che assolsero il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, demolirono tali fantasie (quelle della trattativa Stato-mafia, ndr) scrivendo 1.322 pagine. Ora ne arrivano altre 500, con l'assoluzione di Calogero Mannino, che mi sembrano anche un atto d'accusa contro alcuni metodi d'indagine in uso a Palermo”.
Con queste parole molto dure nei confronti dei magistrati titolari dell'inchiesta Stato-mafia, l'avvocato Basilio Milio, legale dei prefetto Mario Mori, commenta le motivazioni del gup, Marzia Petruzzella, che il 3 novembre del 2015 aveva assolto l'ex ministro Dc, per “non aver commesso il fatto”. Milio aggiunge, “sarebbe ora che ci si interrogasse sulle vere ragioni di tali processi e si avviasse un'indagine sugli enormi costi giudiziari a carico della collettività”. Una stoccata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, al Csm e al sindacato dei magistrati, l'Anm.
Calogero Mannino era accusato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato ma aveva scelto il rito abbreviato, mentre il processo principale è in corso a Palermo, con imputati, tra gli altri, Riina, Bagarella, Mori, De Donno e Mancino. Secondo l'accusa, il politico aveva cercato di aprire un canale con i boss temendo per la propria incolumità. Subito dopo il verdetto i pm dichiararono di ricorrere in appello, mentre il procuratore capo Lo Voi, più cauto commentò di voler “valutare dopo le motivazioni”.
Ebbene le motivazioni sono arrivate, dopo un anno dalla sentenza di assoluzione. Il giudice per le udienze preliminari, scusandosi per il ritardo del deposito, ha scritto oltre 500 pagine di motivazioni della sentenza, sviscerando e analizzando una mole di faldoni impressionanti, considerando che nel processo in corso sono stati depositati oltre un milione di pagine. La giudice Petruzzella, nelle motivazioni più volte ammonisce i magistrati dell'inchiesta Stato-mafia, Vittorio Teresi,Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Antonino Di Matteo per l'impianto accusatorio, anzi sarebbe meglio scrivere per l'assenza di impianto accusatorio. E la Petruzzella non va tenera.
Gup contro Pm
La gup scrive: “il procedimento “trattativa” si inserisce nell’alveo di un’altra nutrita serie di indagini (i cui atti sono in parte pure compresi nel fascicolo del Pm), svolte nell’ultimo trentennio soprattutto dalle Procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, ché, parallelamente alla celebrazione dei processi contro mandanti ed esecutori materiali, via via individuati, hanno sondato se dietro la strategia stragista di quegli anni si annidasse una regia politica occulta. Vi rientrano: l’indagine contro Berlusconi e Dell’Utri, dalla Procura di Caltanissetta, archiviata nel 2002, e quella della stessa Procura, cosiddetta "mandanti occulti bis", archiviata nel 2003, l’indagine della Procura di Palermo denominata “sistemi criminali”, archiviata nel 2001, oltre la già più volte richiamata primigenia indagine “trattativa” della Procura di Palermo iscritta nel 2000 (…) la Procura di Palermo nel 2008 ha continuato invece a privilegiare l’ipotesi della trattativa stato-mafia, secondo l’originaria formulazione (del papello ricattatorio di Riina con la partecipazione alla trattativa di Vito Ciancimino), considerando Massimo Ciancimino una fonte di una qualche “criticità” ma tuttavia suscettibile di sviluppi validi a chiudere il quadro degli interrogativi, che erano rimasti aperti al momento della archiviazione del 2004, soprattutto sull’ipotesi che l’invio della lista di richieste di Riina fosse stata sollecitata da Mori, quale intermediario per conto di una parte istituzionale".
Analizzando gli elementi probatori la gup sottolinea la linea “unidirezionale prescelta dal Pm nella lettura della serie di dati di fatto messi in rilievo e posti a sostegno del suo impianto” e che “molti degli elementi indicati dall’organo dell’accusa afferiscono a situazioni in realtà notorie o pacifiche, che quindi non avrebbero bisogno di essere provate, o persino irrilevanti (quando suscettibili di plausibili letture alternative). E ancora, “la consequenzialità logica di questa analisi del Pm appare molto fragile ed affetta da un evidente vizio di circolarità” (…) “i Pm si sono soffermati ad illustrare il compendio probatorio posto a sostegno della loro complessa rappresentazione accusatoria (..) ma in un’ottica più ampia di quella adottata qui dal Pm (tutti tratti dagli oltre cento faldoni, che compendiano la documentazione dell’indagine e quella affluita nel corso dell’udienza preliminare) il giudice deve restituire a questo processo “la necessaria dialettica, rimasta inevitabilmente frustata dalle caratteristiche del rito abbreviato, unite alla straordinarie dimensioni della documentazione prodotta dalla pubblica accusa, ed acuita, appunto, dalla lettura unidirezionale dei fatti adottata dal Pm”.
Il giudice infine nelle ultime pagine delle motivazioni della sentenza assolutoria nei confronti dell'ex ministro Dc, ammonisce i magistrati:”gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, per accertarne il valore probante individuale in base al grado di inferenza dovuto alla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati unitariamente per porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo. Ogni "episodio" va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della "storia" racchiusa nell'imputazione”.
Il "papello" di Massimo Ciancimino
Sul papello ci eravamo già soffermati, anticipando nel 2013 le dichiarazioni della giudice Petruzzelli, non per vaticinio ma per aver analizzato gli atti processuali. Il gup scrive che “l'analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l'assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale, la gravità degli artifici adoperati per rendere credibili le sue sensazionali rivelazioni e giustificare le sue molteplici contraddizioni e per tenere sulla corda i pubblici ministeri col postergare la promessa di consegnar loro il papello, carpirne così la considerazione e mantenere sempre alta su di sé l'attenzione generale, accompagnato nel suo luminoso cammino dalla stampa e dal potente mezzo televisivo, stuzzicati con altrettanta astuzia".
"In particolare - prosegue il gup - sul finire del 2008 il Ciancimino creava abilmente nei pm, che lo interrogavano sulla trattativa tra il padre e i due carabinieri del Ros, l'aspettativa del papello, che forniva solo in fotocopia sul finire del 2009, dopo averli riempiti di documenti del padre, selezionati a suo scelta e consegnati nei tempi da lui decisi, e di informazioni modulate a seconda delle evoluzioni del suo racconto e delle contraddizioni in cui andava incespicando. Non può mancarsi di notare ancora una volta: che l'autore del papello consegnato dal Ciancimino in copia ai Pm non è stato identificato". Il gup elenca tutti i punti oscuri della collaborazione di Ciancimino che, con le sue rivelazioni, ha dato vita a un'indagine già archiviata in passato: come le dichiarazioni sul misterioso signor Franco, 007 che, da dietro le quinte, avrebbe mosso i fili della trattativa. "Non ha fornito alcun dato autentico e utile ad identificarlo", scrive il gup che definisce "defatiganti, dispendiose e del tutto inutili" le ricerche investigative per identificare l'agente dei Servizi. Il giudice ricorda anche il documento falso predisposto da Ciancimino "ai danni di Gianni De Gennaro, all'epoca capo della polizia, e la vicenda dei candelotti di dinamite, fatti rinvenire ai Pm nel giardino della sua abitazione a Palermo, nell'aprile del 2011, per la cui detenzione ha già ricevuto una condanna". Ciancimino "lo ha fornito solo in fotocopia senza dare di ciò alcuna motivazione plausibile, posto che la circostanza che si trovasse in cassaforte all'estero non avrebbe impedito la consegna dell'originale; - scrive il gup - ed è evidente che le fotocopie, con l'uso di carte e inchiostri datati, impediscano l'accertamento delle epoche degli originali, oggetto della copiatura; non ha voluto rivelare chi gli avesse spedito il papello dall'estero, come da lui sostenuto, né perché non potesse dirlo ai pm e ha detto di non conoscerne l'autore". "E naturalmente - stigmatizza il giudice - non si può non sottolineare come il castello accusatorio si sia fondato su documenti prodotti da Massimo Ciancimino in semplice fotocopia e non in originale".
La scarsa attendibilità di Giovanni Brusca
Il gup ha anche parole pesanti nei confronti del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca. Così scrive: “le sue dichiarazioni a causa della loro farraginosità e delle modalità del loro progredire si rivelano di scarsa attendibilità. È soprattutto l’insieme delle caratteristiche e dei contesti in cui dette dichiarazioni del collaboratore si sviluppano, che impedisce di dar loro peso processuale” soprattutto “quello della retrodatazione dell’invio del papello o il ripensamento su altri aspetti relativi alla cronologia degli eventi, connessi all’avvio e ai fatti seguiti alla medesima trattativa, che in astratto potrebbero considerarsi dovuti a naturali difetti della memoria e di poco conto ai fini della valutazione dalla credibilità del dichiarante, invero nel contesto in cui sono avvenute si rivelano frutto di suggestioni o di scelte personali di Brusca, indotte anche dal ruolo d’eccezione di cui si è sentito investito nei processi”.
E ancora la Petruzzelli aggiunge che “da quanto illustrato emerge che l’eccesso di interrogatori in Brusca determinò ad un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenda a reputarsi depositario di molte verità non rivelate e a non distinguere più le opinioni dai fatti da lui conosciuti” e che dai pm “sono state attribuite a Brusca cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere. L’esame degli interrogatori passati in rassegna evidenzia le evoluzioni dichiarative di Brusca, la confusione dei suoi ricordi, soprattutto con riferimento ai tempi degli episodi chiave, e l’innegabile e ingiustificata progressione delle sue accuse, dimostrando “invero di avere sulle situazioni di cui riferisce, su tali temi, delle conoscenze frammentarie e limitate”.
L'opinione su Ciancimino
Giudizio pesante del gup, non solo nei confronti del teste su cui ruota tutto l'impianto accusatorio della “Trattativa”, ma anche nei confronti dei magistrati titolari del processo, “i Pm tra i cento interrogatori documentati di Massimo Ciancimino, hanno indicato come maggiormente organici e significativi (ai quali pertanto il giudice nella sua attività decisoria avrebbe dovuto fare speciale riferimento), solo quattro di essi, espletati tra febbraio e marzo del 2010” e “un’autentica valutazione dell’attendibilità del Ciancimino non potrebbe certo fondarsi sull’esame di quattro dei cento interrogatori cui il medesimo è stato sottoposto nel tempo” ma “al contrario, esaminare il complesso degli interrogatori di Massimo Ciancimino è indispensabile innanzitutto per comprendere cosa abbia determinato la necessità del loro protrarsi per una così lunga durata, considerato che fin dall’inizio il campo dei temi di interesse degli inquirenti era ben delineato (l’esistenza di referenti politici dietro i Ros, quando andarono a trattare con Vito Ciancimino, le date dei loro colloqui, i contatti di Vito Ciancimino con altri, e soprattutto il papello e le circostanze che avrebbero portato alla sua spedizione) e le risposte al riguardo di Massimo Ciancimino rivelavano quali effettive informazioni sarebbe stato possibile trarne, oltre che la sua non linearità”. Il gup spiega che “dalla lettura delle registrazioni integrali degli interrogatori di Massimo Ciancimino, salta agli occhi una sua forte suggestionabilità, con la tendenza ad assecondare la direzione data all’esame dai Pm” con “ una propensione alla rappresentazione fantasiosa e spettacolare, e al contempo manipolatoria”.
Nessun ricatto allo Stato
“Gli eventi stragisti del ‘93- così scrive la Petruzzella - possono avere spiegazioni diverse e maggiormente plausibili di quelle sposate dai Pm e non essere stati necessariamente determinati dai contatti che i Carabinieri nel ’92 ebbero con Vito Ciancimino. Le informazioni che ci sono giunte attraverso i mafiosi che sono diventati poi collaboratori di giustizia e la somma dei risultati delle lunghe inchieste sui mandanti occulti delle stragi e sui portatori di “interessi convergenti”, ci rivelano che sullo sfondo di quella azioni ci furono scenari molto più fluidi e dinamiche molto più irrazionali e imprevedibili di quelle della trattativa e del subentrare di Provenzano al posto di Riina, ritenuta dal Pm” e che l'idea di colpire i monumenti “era già dal ’92 presente nelle menti dei Brusca, Bagarella, Messina Denaro e Graviano”. Dunque gli attentati stragisti si conclusero con “con l’attentato a Totuccio Contorno in Toscana, preceduti dalla preparazione del più enigmatico attentato all’Olimpico di Roma. Dopo di che il gruppo si sfaldò, per dissapori tra i suoi membri, dovuti a ragioni di interesse economico e allo scoraggiamento generale, dovuto al fallimento della strategia, dal momento che lo Stato non si era piegato al loro ricatto, i collaboratori di giustizia aumentavano, il maxiprocesso non fu rivisto, la repressione di polizia non cessò, l’indignazione dell’opinione pubblica si acuì”.
Le reazioni
Nicoletta Piergentili Piromallo, difensore di Nicola Mancino, unitamente al legale Massimo Krogh, dopo aver letto le motivazioni della sentenza di assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino, a Panorama.it dichiara che “ tale sentenza esamina i temi processuali evidenziando incertezze e approssimazioni (dell'impianto accusatorio ndr) e che “vengono valutate analiticamente anche le testimonianze dall'accusa nei confronti del ministro Mancino, per ricavarne incongruenze e contraddizioni, viceversa nessuna critica viene espressa all'operato del ministro degli Interni ( di quel periodo ndr). Per questo esprimiamo la nostra piena fiducia nei giudici ( della corte d'Assise di Palermo dove il processo è ancora in corso ndr) auspicando una decisione breve”. Francesco Antonio Romito, difensore dell'ex ufficiale dell'Arma Giuseppe De Donno, dichiara: “ Nel rispetto della Corte che deve giudicare i coimputati di Mannino mi riduco a poche osservazioni: è davvero onorevole il fatto che giudice si scusi per il ritardo nel deposito delle motivazioni, ma tale lungo tempo è la garanzia di un miglior esame degli atti processuali. Con riserva di approfondire meglio, mi pare di leggere che sotto il profilo del dolo non ci sono neanche quei tanto pallidi quanto ambigui elementi indiziari presenti nella condotta del coimputato Mannino, che, penso, per questo, avrebbe meritato un'assoluzione con formula più favorevole; se sotto il profilo del dolo non esistono neanche pallidi indizi, l'eventuale appello della Procura ancora più difficilmente potrà sortire un ribaltamento della assoluzione. E ciò conforta ancor più la professione di innocenza dei pubblici ufficiali coimputati nostri assistiti”.