Oscar, l'esclusione di Stallone grida vendetta
Il cinema è ancora vivo: la sentenza dal Dolby Theatre di Hollywood. Però l'Academy ha sbagliato alcune scelte
Pensieri da day-after. Con alcune inevitabili osservazioni a freddo, meno legate alla cronaca e più, invece, all’estetica e alle sostanze seconde di questa edizione dell’Oscar. Che intanto, vale la pena di ricordarlo, era l’ottantottesima.
Vale a dire espressione di un’età rispettabile che la dice lunga sul fascino e il glamour che l’Academy Award riesce ancora a conservare nel tempo.
Specie in questi anni ruzzolanti che trascinano con sé, rovinosamente, ogni cosa, intrappolando tutto nella rete, modificando del tutto l’angolazione prospettica sulle cose.
Se dico “conservare” mi riferisco ai due principali significati del termine: quello di lasciare quasi intatto il rilievo dell’evento, non ibernandolo, ci mancherebbe, piuttosto nutrendolo ogni volta di nuove energie; e quello di salvaguardare e tutelare questa grande festa annuale, elargendole in giusta quantità gli anticorpi necessari a difendersi dagli assalti della patologia televisiva e dal nemico invisibile chiamato pirateria. Risultati raggiunti con un gran lavoro di comunicazione oltre, naturalmente, l’intrinseco valore di un premio che riesce tuttora a proporsi come simbolo di “consacrazione” artistica.
Un momento magico
In fondo, dobbiamo essere grati all’Oscar. Perché fa bene al cinema. Poi si potrebbe anche dire il contrario, cioè che il cinema fa bene all’Oscar. E in ogni caso risulta che questo cinema, perseguitato da anni e intaccato da mille specie di roditori che sgretolano, tritano e sgranocchiano, è tuttora capace di sedurre, pure attraverso il suo momento topico al Dolby Theatre di Hollywood.
Dove quest’anno la quantità ha remunerato in termini tecnici Mad Max: Fury Road che davvero è un film da tremiti e sussulti e sulla qualità ha virato, in equa distribuzione, sulle maggiori gratificazioni a Alejandro Gonzale Inarritu per Revenant, opera che ha finalmente impalmato anche Leonardo Di Caprio, alla stupenda Brie Larson di Room, a Spotlight quale scontata – o quasi – palma nella categoria best picture.
Era nell’aria anche il riconoscimento al miglior film straniero, quel Figlio di Saul che stilisticamente s’accosta al prodigio, così come tutti, almeno da noi, aspettavamo il nuovo trionfo di Ennio Morricone per il best original score di The Hateful Eight.
Il Maestro si rinnova
A proposito del Maestro, guardando oltre lo specifico referente di questo Oscar, piace infinitamente la sua risorsa creativa che lo ispira in una cifra di costante rinnovamento e di ricerca sonora, come ha mostrato di recente anche ne La corrispondenza di Giuseppe Tornatore. In Italia è stato giustamente onorato. Con tempestività sui media più solleciti, tv e internet. E con fatale ritardo dalla stampa quotidiana, condannata per sua natura al posticipo.
I giornali grandi e piccoli del martedì si sono spartiti quelle che, in fondo, erano le due “notizie” dell’Oscar 2016: il premio, appunto, a Morricone e quello, atteso da vent’anni, a Di Caprio. Probabilmente ha avuto ragione chi ha scelto di mettere in prima pagina il secondo, avendo il primo occupato abbondantemente tutti i notiziari di radio, tv e rete del lunedì, dunque stagionato rispetto all’altro nell’informazione che lo riguardava.
Onore agli esclusi
Solo osservazioni da day-after, si diceva.
Tra queste, un indizio di personale e modesto disaccordo sul premio al miglior film d’animazione, per il quale avrei preferito la solitudine astrale di Anomalisa rispetto al crepitante ma più convenzionale Inside Out; e su quello al miglior brano musicale che sarebbe stato più logico attribuire alla squisita Simple Song #3 di Youth anziché a Writing’s on the Wall di Spectre.
Così come ho trovato indecente l’aver ignorato il monumentale rigoglioso Sylvester Stallone di Creed a beneficio del Mark Rylance de Il ponte delle spie.